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“So che non odierò”

Izzeldin Abuelaish è nato e cresciuto nel campo profughi di Jabalia, Striscia di Gaza. Il 16 gennaio 2009 una granata, lanciata da un carro armato israeliano durante l’operazione “Piombo fuso”, provoca la morte di tre delle sue figlie e di una nipote. Una morte raccontata in diretta: il fatto avviene proprio mentre Izzeldin rilasciava un’intervista ad una radio israeliana.
“Quello che quel giorno vidi, era quanto di più vicino al paradiso e lontano dall’inferno potesse esistere: una striscia di spiaggia isolata, a pochi chilometri dalla miseria di Gaza, dove le onde si infrangevano sulla riva… Il cielo di dicembre era rischiarato da un pallido sole invernale, il Mediterraneo risplendeva. Guardavo i miei figli giocare fra le onde, ma la preoccupazione del futuro mi attanagliava. Un mese dopo, gli israeliani avrebbero bombardato Gaza e buttato all’aria la mia vita. Quel giorno eravamo tutti in casa: i miei otto figli, i miei fratelli, le loro famiglie. Dove potevamo andare se neppure ospedali e moschee venivano risparmiati dai bombardamenti? Giocavo con Abdullah quando ho sentito l’esplosione nella stanza delle ragazze. Ho perso le mie figlie, e nonostante la rabbia e lo sconcerto, so che non odierò”.
Laureato in medicina all’università del Cairo, specializzato in ginecologia e ostetricia, con studi condotti in Usa e Gran Bretagna, Izzeldin è stato, nel 1991, il primo medico palestinese a prestare servizio in un ospedale israeliano. Trasformando così una tragedia personale in uno slancio di coesistenza tra palestinesi ed israeliani. L’ha raccontato nel libro Io non odierò e l’ha valorizzata attraverso la fondazione “Daughters for life” che si occupa di programmi di scolarizzazione, formazione universitaria e salute per le giovani donne in Medio Oriente.
Izzeldin non ha perso solo le figlie. Qualche mese prima era morta la moglie Nadia. Eppure non ha mai perso la speranza e la fede in un futuro migliore, in una pace possibile tra israeliani e palestinesi. E la sua speranza contagiosa ha toccato le migliaia di persone che lo hanno ascoltato al Meeting.
Abuelaish non ha mai cercato vendetta. La sua convinzione è che uno dei modi migliori per portare la pace tra israeliani e palestinesi sia l’assistenza sanitaria. “Ogni paziente è come uno dei miei parenti. Non faccio distinzioni tra israeliani, palestinesi, arabi, israeliani, nuovi immigrati, beduini. Il mio dovere è assicurarmi che ogni bambino abbia le stesse opportunità di essere sano alla nascita” ha affermato il medico. “Io non odierò, chiedo giustizia ma non odierò” ha ripetuto più di una volta alla platea del Meeting. “Oggi è il tempo della speranza, il tempo di indossare l’abito di «esseri umani» e di chiederci quale mondo vogliamo per noi e per i nostri figli. Sono nato in un campo profughi e non ho vissuto la mia infanzia. Tuttavia mi sono sempre detto che non avrei mai accettato la miseria della vita. Qualcuno potrà fermarmi, occupare e prendere le mie cose, ma nessuno potrà mai impedirmi di sognare. La vita mi ha insegnato che i sogni sono reali. Sognavo di diventare medico e lavorando duramente lo sono diventato. L’unica cosa impossibile è far ritornare le mie figlie sulla terra. Quando le ho viste annegate nel loro stesso sangue ho pensato che nessuno dovesse vedere ciò che io avevo visto. Questa tragedia doveva potere essere l’ultima. Le cose più preziose al mondo sono la vita e la libertà. Salvando una vita salviamo il mondo. Gli esseri umani non sono numeri o statistiche ma hanno un nome, un volto, una famiglia, e per questo vanno difesi”. “Sono certo – ha aggiunto Izzeldin – che ritroverò le mie figlie e dovrò dare loro delle risposte. E fare loro un grande dono: che sia risolta la causa del versamento del loro sangue”. La soluzione della guerra non passa, ha dichiarato il medico, per le armi, l’inimicizia, l’odio, l’ignoranza ma attraverso la saggezza, la gentilezza dei buoni, le parole più potenti delle armi. “L’odio è la malattia cronica che distrugge l’uomo. Ho scelto di non essere vittima dell’odio e di essere più forte di chi ha ucciso le mie figlie. La cura dell’odio non è la vendetta ma riuscire a superare le ferite che esso provoca. Ci odiamo perché non ci conosciamo. Conoscersi significa manifestare rispetto, passione, comprensione”. Il saluto finale del medico è un inno alla donna, “l’arma migliore – ha detto – per combattere ingiustizia e violenza. Le donne palestinesi conoscono il sacrificio e la sofferenza. Possono essere le promotrici del cambiamento, ma prima devono essere liberate dalla schiavitù che la cultura, l’occupazione, le sofferenze hanno loro imposto. Per cambiare una società le donne devono essere istruite”. Esattamente quello che si propone “Daughters for life” che nel 2011 ha conferito venticinque premi a ragazze palestinesi, giordane e israeliane. Quest’anno i premi sono cinquanta, offerti anche a giovani libanesi.

(Sir)