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Scappati dalle torture

Ocean Viking

IL TEMA. Il nostro collaboratore ha vissuto in prima persona gli sbarchi dei migranti a Ravenna e Ancona. “Il sogno di libertà è più forte della paura della morte”

Ocean Viking

Fuori fa freddo. La temperatura sarà di poco sopra lo zero termico. Preparo le ultime cose da mettere nello zaino e poi via. Salgo in macchina e raggiungo l’A14.

Direzione sud. Ancona. Sono le 18, minuto più minuto meno.

Si mette anche a piovere.

Un’oretta e mezza e imbocco l’uscita. Pago e guardo i segnali: porto, a destra. Quando arrivo, sul molo, è già pieno di gente. Forze dell’ordine, Protezione civile, Croce Rossa, tanti volontari. Sono lì per attendere l’Ocean Viking, la grande nave che a bordo ha 37 migranti, di cui 12 minorenni. Il freddo si fa sempre più pungente e la nebbia che piano piano cala, dà a tutto un paesaggio spettrale.

Mi guardo intorno, sono quasi le 20 e della nave in porto non c’è traccia. Qualcuno dice che ha avuto mare molto mosso e che comunque è “roba di pochi minuti”. Mi avvicino a un volontario e gli chiedo: “Perché sei qui?”. Lui mi risponde così: “Per portare umanità in un contesto in cui la vita umana è troppo spesso strumentalizzata da politica e istituzioni”. Poi, eccola. Sono le 21.30. L’Ocean Viking inizia le manovre di attraccaggio. Dopo circa un’ora i naufraghi iniziano a scendere dalla nave. Qualcuno ha delle coperte di lana, altri sono avvolti da quelle termiche. Il primo a scendere è un ragazzo.

Viene preso subito in consegna. Le lacrime segnano il suo volto. E così, uno ad uno, scendono anche tutti gli altri. Sono stanchi e infreddoliti. Escono i medici e i loro racconti mi fanno rabbrividire. “Quando uno dei ragazzi si è spogliato dentro la tenda di primissimo soccorso e ci ha mostrato la sua schiena non siamo riusciti a trattenere le lacrime. Le condizioni in cui queste persone sono costrette a viaggiare sono terribili, ma c’è anche la gioia di potergli dare le cure necessarie e la protezione che cercavano. Abbiamo provato emozioni fortissime che non dimenticheremo mai, sono testimonianze che non devono essere perdute”.

Trattengo a stento le lacrime.

E pensare che dovrei essere abituato. Non è il mio primo sbarco. Ero anche a Ravenna, la mattina del 31 dicembre quando 113 naufraghi hanno toccato per la prima volta il suolo italiano. Intanto si è fatto tardi, sono le 3 e i profughi hanno appena lasciato il molo.

Torno a casa, ma 36 ore dopo sono di nuovo lì, ad Ancona.

Questa volta la nave si chiama ‘Geo Barents’ e trasporta 73 anime, di cui 19 sono minori, alcuni non accompagnati.

Sono stati soccorsi mentre le onde del mar libico li stavano inghiottendo. Tra loro c’è un ragazzo. Lo chiameremo Ockec, ha 21 anni ed è originario dell’Eritrea.

“Quando avevo 4 anni mia madre ha deciso di portarmi in Sudan per salvarmi dal servizio militare. In Eritrea i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito. Un giorno il governo ha portato via mio padre e mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me. Ho vissuto in Sudan per circa 13 anni, poi ho deciso di scappare. Sono arrivato in Libia grazie a un intermediario, ma non avevo i soldi per pagarlo e così mi ha costretto a lavorare per lui nelle miniere. Eravamo 70, 100 persone in una stanza piccolissima, senza finestre. Ci davano un pezzo di pane e un po’ d’acqua. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici.

Senza raccontare tutte le volte che hanno abusato di me. Poi, una notte, sono riuscito a fuggire. Sapevo di questi viaggi verso l’Europa. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica. Eravamo su un gommone. Le onde erano altissime.

Qualcuno, purtroppo, è anche morto. Ma ora sono in Europa e mi impegnerò per costruire un futuro migliore”.

Francesco Arrigoni