Romeni e Sinti scendono in Campo

    E’ una giornata di sole tra le roulottes mangiate dalla ruggine. Tra i bidoni di latta rovesciati e maleodoranti. Tra le cataste di ferro, i tronchi di legno marcio e le sterpaglie. I fili della luce – tanti e aggrovigliati – a penzolare, da tetti di fortuna, a pochi centimetri da pozzanghere d’acqua e fango non ancora asciutte. È una giornata di sole e con il sole – giusto per qualche attimo – anche gli abissi del degrado fanno meno impressione. Nel campo nomadi di via Islanda stretto fra i capannoni delle imprese e lo stadio dei Pirati, sembra una giornata come tante altre con i Sinti, abitanti della porzione più ampia dell’area, raccolti a crocchio davanti alle dimore e i rumeni, addossati sul greto del fiume Marecchia, fuori dalle roulottes rabberciate e cadenti.

    Sembra una giornata come tutte le altre, ma non lo è. Solo ventiquattro ore prima, nel campo sono arrivati gli uomini della Polizia Municipale e dei Carabinieri: un controllo alla zona, la verifica delle condizioni ambientali – al limite di guardia, se non oltre – e un ultimatum, indirizzato ai 40 rumeni. Sette giorni per sgomberare le proprie cose e andarsene. Abbandonare quello che per molti non è che un inferno. Per altri, invece, una casa e, soprattutto, la possibilità di sopravvivere.

    “Sono venute le forze dell’ordine e ci hanno detto che ce ne dobbiamo andare di qua. – spiega una donna rumena, camicetta rosa e spirito combattivo – Io sono qui con un contratto di lavoro regolare a tempo indeterminato – spiega gesticolando e facendo danzare la propria lettera di assunzione – pago i contributi in questo Paese. Mi vogliono mandare via per colpa dei rumeni che si sono comportati male a Roma. Lo sono che sono romeni ma io non ho fatto niente: ho due bambine e mio marito è malato, che faccio, vado in Romania a morire di fame? No grazie”.

    Parole dirette, come diretti sono gli sguardi dei pochi rumeni che le si fanno intorno. Dei 40 che vivono nel campo – arrivati nel corso degli anni, a partire dal 2000 – diversi fanno parte di famiglie integrate, per quanto possibile, nel tessuto riminese. Quattro o cinque titolari di contratti di lavoro e, in alcuni casi, anche regolarmente residenti in città. “Sono 9 anni che vivo a Rimini. – argomenta un’altra donna, giovane madre di famiglia – Il Comune mi ha concesso la residenza: dicono che ha sbagliato, se ha sbagliato il Comune, di certo non ho sbagliato io. I bambini vanno a scuola, fanno la terza e la quinta elementare e noi viviamo del nostro lavoro. Di cosa ho colpa? Non mi si butta in strada con due bambini, questa non è giustizia. Se non potevano darmi la residenza non me la dovevano dare. Ho fatto anche richiesta per la casa comunale. Ho tutti i documenti”.

    Spalleggiata da altri concittadini che mostrano, a turno la lettera di assunzione e il tesserino di una ditta di pulizie, la donna incalza e invita a sapere distinguere tra chi, a suo dire, si comporta in maniera corretta e chi, invece, ha scelto altre strade. “In questo campo – sibila – ci sono 5-6 famiglie che lavorano con contratto a tempo indeterminato. Gli altri non mi interessano, noi lavoriamo, non rubiamo, non abbiamo fatto niente di male: questo è razzismo, non possiamo pagare noi per chi ha sbagliato. Perchè – si chiede – devono proprio pagare i miei bambini? Mi hanno detto che non sono una brava madre. Ma i miei figli non sono mai andati a scuola sporchi, non sono mai andati a scuola senza un libro, non sono mai andati a scuola senza un vestito. Faccio ciò che dice la legge e noi non siamo cani, siamo persone: che vadano a prendere quelli che creano problemi, non noi che lavoriamo”.

    L’appello dei Sinti
    E se i rumeni si lamentano per il blitz delle forze dell’ordine – un sopralluogo, il primo di una serie pensata per verificare la situazione ambientale e igienica, procedere a una bonifica e, magari, a un censimento – gli altri abitanti di via Islanda, i Sinti, lamentano una situazione di estremo degrado e chiedono all’Amministrazione un incontro per affrontare il tema delle micro zone in cui stabilire strutture permanenti.
    “È già un paio di anni che chiediamo le micro aree – ammonisce Enrico Prina, presidente dell’associazione culturale ’Sucar Mero’ – perchè qui, in questo campo, non si può più vivere. Il Comune, però, non sembra volere capire: siamo arrivati al punto che loro stessi devono venire a controllare la situazione. Le micro aree – incalza – le stanno facendo in tutta Italia. C’è una legge, è facoltativo farle, ma dato che questo non è un campo autorizzato ed è da smantellare se lo smantellano oggi dove ci portano, in mezzo a una strada? Siamo italiani, siamo Sinti dal 1.400 in Italia ma non siamo riconosciuti in alcuna maniera. Vogliamo avere un incontro con il Comune e mettere sul tavolo le nostre prospettive. Lo chiediamo da due anni. Vogliamo che ci ricevano”.
    Considerazioni ribadite con forza anche da un altro esponente dei Sinti, Davide Gerardi, anch’egli di ’Sucar Mero’, secondo cui “in passato è stato smantellato il campo rom, sono stati stanziati soldi per mandarli via. Come hanno speso soldi per loro è giusto che li spendano anche per noi. Non è una questione che riguarda solo chi vive al campo. Alcuni hanno comprato terreni privati ma non li possono usare perchè la popolazione si lamenta. Chi ha un terreno privato deve avere quieto vivere”.

    Gianluca Angelini