Quel silenzioso disagio “straniero”

    Il disagio di chi arriva da lontano ha lo sguardo di Ayach, 22 anni, originario del Marocco. A Rimini con i genitori ed un fratello, operaio in un’azienda metalmeccanica di Coriano, Ayach oggi si trova senza un impiego: assunto nello scorso novembre, allo scoppiare della crisi, dopo tre anni di apprendistato viene liquidato qualche mese dopo senza alcuna tutela, non avendo maturato almeno due anni di versamenti utili come lavoratore dipendente. La sua famiglia ha sulle spalle un mutuo da pagare ed anche il padre, nello stesso periodo, è finito in cassa integrazione.
    Il disagio di chi vive e lavora in “terra straniera” si cela nei pensieri di Laura, 30 anni, albanese. In tasca ha una laurea in pediatria conquistata con fatica nel paese d’origine, che non può spendere in Italia, dove è arrivata piena di speranze una decina di anni fa con il marito e il primo dei tre figli, Asmir. Non potendo svolgere il lavoro che ha sempre sognato, dopo qualche anno di esperienza stagionale in un hotel di Rivabella, oggi fa la colf in una ricca famiglia del Riminese.
    Il disagio, infine, è nelle robuste braccia di Irina. Braccia forti, vigorose che danno assistenza, ogni giorno, ad una coppia di anziani invalidi. Lei è sulla sedia a rotelle, lui è vittima dell’Alzheimer. Irina è il motore della casa: necessaria, indispensabile. Vive per loro, manda i soldi a casa, in Ucraina, al marito e ai due figli, entrambi iscritti all’università. Quell’assegno mensile è tutto, al costo di stare lontano dalle persone più care, di dover rinchiudersi in casa per (quasi) 24 ore su 24. Al costo di… andare in depressione.

    Dal disagio alla malattia
    Storie di ordinaria delusione da parte di chi, arrivato nel Bel Paese, spesso con la valigia piena di sogni, è costretto a ricredersi, a condurre una vita “non sua”, a svolgere un lavoro (quando c’è la fortuna di trovarne uno regolare) magari neanche mai ipotizzato. Di tristezza, di realizzazione mancata e di un lavoro non in sintonia con le proprie aspirazioni, ci si può anche ammalare, nel vero senso del termine. A maggior ragione quando ci si trova a ricominciare da zero in un paese nuovo, sconosciuto.
    “La persona immigrata arriva in un altro paese con un bagaglio importante: la sua personalità – spiega le origini del disagio psichico Valeria Guagnelli, consulente legale, argentina, in Italia dal 1988, dove da sempre opera nel campo del sociale -. L’immigrato – rimarca – è un qualcuno che in alcuni casi ha una determinata professionalità, che nel paese di origine era conosciuto per essere «figlio di», che abitava in quel determinato quartiere, frequentava certi posti e certe persone, aveva determinati hobby. Nel momento in cui arriva in terra straniera tutti questi aspetti della sua personalità vengono azzerati e come messi in un sacco colmo di etichette: la persona, anche se acculturata, qui diventa «analfabeta», l’individuo si trova omologato ad una massa”. Inevitabile il disagio che si viene a creare quando “tutte quelle caratteristiche che ti sei costruito anche con fatica – continua Guagnelli – non contano più nulla. Inizia una lotta per poter recuperare quello che eri e al tempo stesso rielaborare una nuova posizione che ti faccia felice in questo nuovo contesto”.

    Squilibri in famiglia
    Guagnelli opera da oltre dieci anni a sostegno degli immigrati. Fino a qualche mese fa era operativo il Centro Donna Immigrata, diventato nel 2000 un progetto per il Comune di Rimini presso l’Assessorato ai Servizi Sociali, oggi non più finanziato. Attualmente un servizio per le donne immigrate è attivo presso lo sportello della Provincia Per Lei (in P.le Bornaccini, a Rimini). “in questi anni – dice – ho visto molte persone arrivare sane e ammalarsi dopo un certo periodo”.
    I fattori scatenanti sono molteplici e le situazioni possono complicarsi ulteriormente quando dal singolo individuo, l’esperienza di migrazione arriva a riguardare e toccare profondamente l’intera famiglia di appartenenza, sconvolgendone non poco gli equilibri interni ed esterni. “È molto difficile per alcune popolazioni, con un certo background culturale, capire i ruoli che qui vengono dati ai componenti della famiglia”.. L’avvocato argentino porta l’esempio di molte donne che qui iniziano a lavorare per la prima volta, acquisendo quell’autonomia ed emancipazione che in patria non hanno mai avuto. È il caso delle donne che raggiungono il marito già presente in Italia da qualche anno e con un lavoro stabile: “Molte, iniziando a lavorare, ad inserirsi in un contesto sociale, per l’aggiunta nuovo e sconosciuto, adottano nuove abitudini, iniziano a rapportarsi ad altre persone per lavoro, anche di sesso maschile, iniziano a tenere di più alla propria immagine…”. Nella quasi totalità i mariti, quando provenienti da una cultura fortemente paternalistica, non accettano.
    Tensioni simili possono nascere anche nel caso contrario: donne che approdano in Italia e dopo qualche anno si fanno seguire da mariti e figli. “Ci sono culture dove l’uomo tende ad avere un ruolo meno responsabile di quello che ricoprono i mariti italiani”. Diversità culturali che possono generare a distanza di tempo veri e propri disagi mentali.
    Ci sono poi i comportamenti patologici riscontrabili nei giovani immigrati, specie in età adolescenziale. “Due tendenze sono allo stesso modo gravi– spiega ancora Valeria Guagnelli in base alla sua esperienza di sostegno e consulenza nelle scuole – quella di creare ghetti e rinchiudersi nella propria cultura di appartenenza e quella opposta che consiste nel rinnegare l’origine. Mi è capitato di vedere parecchi ragazzi nascondere il proprio paese di appartenenza e negare perfino i genitori”. Comportamenti indubbiamente influenzati, fa intendere Guagnelli, dalle solite etichette, diffuse spesso anche con la complicità dei mass media.

    Quel fatale senso di vergogna
    “Qualsiasi persona migrante arriva con un progetto migratorio che non è solo qualcosa di esterno, ma si inserisce a pieno nella sua soggettività”. L’etnopsichiatra Leonardo Montecchi affronta la problematica con il punto di vista di una disciplina, l’etnopsichiatria appunto, che studia e cerca di curare il disagio psichico partendo dai punti cardine della cultura di provenienza del singolo migrante. “Perché il sistema di valori, rituali e credenze del paese di origine viene ad avere una fortissima, inevitabile influenza– spiega Montecchi – sulle modalità di sviluppo e risoluzione dello stesso problema psichico”.
    Un esempio lo si può individuare nel modo in cui i cittadini provenienti da certe culture tendono a reagire di fronte ad un fallimento quale può essere la perdita del lavoro nel nuovo Paese o l’impossibilità di continuare a mandare costantemente i soldi ai familiari rimasti in patria. “Se il progetto di migrazione in qualche modo fallisce – prosegue il dottor Montecchi – il senso di vergogna può trasformarsi in un senso di persecuzione: il «fallito» se accusa qualche sintomo di malattia fisica, può pensare che sia stata la famiglia, che non riceve più i soldi a casa, ad provocarglielo con qualche rituale… Si innesca così un cortocircuito per cui la persona si ammala veramente, seriamente”.

    Un “Esodo” come… rifugio
    Dunque sentimenti molteplici: dall’angoscia, frustrazione e senso di spaesamento che possono colpire, a diversi livelli, ogni cittadino che si trovi nella situazione di reinventare la propria esistenza in un nuovo paese, a sintomi più gravi e complessi di disagio psichico. In molti casi anche fenomeni difficili da comprendere per noi occidentali e per i quali andrebbero studiati percorsi psicoterapeutici innovativi, sensibili a questi aspetti culturali.
    Da questa esigenza è nata l’associazione Esodo: oltre a Valeria Guagnelli e all’etnopsichiatra Leonardo Montecchi ne fanno parte altri cinque specialisti tra psichiatri, psicoterapeuti e psicologhe (per informazioni e assistenza si può contattare la presidente, la dott.ssa Valeria Violante, tel. 320.1132235). L’obiettivo è quello di fornire un servizio di psicoterapia gratuita, partendo da uno sguardo particolare, quello della cultura dell’etnia e del paese di provenienza dei singoli pazienti, e al tempo stesso di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di un servizio di riabilitazione e cura specifico, all’interno della stessa Azienda di Unità Sanitaria Locale.
    Dati precisi, circa l’effettiva necessità di servizi sanitari di questo tipo, non esistono, almeno ufficialmente. I disagi e le malattie, quando colpiscono la psiche, sono ancora più difficili da diagnosticare e curare. Valeria Guagnelli ci congeda ricordando un dato significativo: “Nel dopoguerra, negli anni delle grandi migrazioni in America latina, a Buenos Aires il 50% delle persone ricoverate nelle strutture psichiatriche era rappresentato da immigrati affetti da «sindrome fallimentare».
    Considerando i tanti nostri connazionali che sono partiti, in quel periodo, a cercare fortuna oltre oceano, è facile supporre che disturbi come quelli descritti in questa pagina abbiano riguardato anche loro. Basterà, questo, a guardare con “altri occhi” i nostri vicini provenienti da lontano?

    Alessandra Leardini