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Osare la fraternità, ardire la speranza

Osare la fraternità, ardire la speranza. È i titolo del discorso alla Città fatto dal vescovo Francesco in occasione della festa di San Gaudenzo, anticipata quest’anno alla serata del 13 ottobre, per l’accumularsi di eventi nel giorno 14 (Giro d’Italia, Fiera ecc).

Il Vescovo fa questo discorso tenendo idealmente in mano la recentissima encicilca diel Papa ”Fratelli tutti”. Si snoda in dieci paragrafi, tutti dedicati al tema fraternità, “parola alta e altra, purtroppo esiliata dal sentire comune e dal parlare corrente. Osarla, si deve. Ma si può? Secondo Papa Francesco, sì, si deve e si può”.

L’intenzione del Vescovo di Rimini, parlando alla Città, non è certo quella di sconfinare in un ambito che non gli è proprio e neppure di ‘propinare’ un discorso strettamente confessionale ad una Città e ad un territorio laico e multireligioso, come tutto il nostro Paese.

Lo stesso Papa Francesco sgombera il terreno da ogni rischio equivoco: “Pur avendo scritto questa enciclica a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo, in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà” (nr. 5).

Il dialogo con tutte le persone di buona volontà anima l’intervento di mons. Lambiasi, proprio a partire dal tema del discorso, la parola “Fraternità”, parola laica e rivoluzionaria, che la Chiesa condivide in modo appropriato. Non solo.

Per il Vescovo, le parole che compongono il trinomio della Rivoluzione francese, Liberté – Égalité – Fraternité, sono tutt’e tre, insieme, cristiane, laiche e rivoluzionarie. Cristiane, perché vengono dal linguaggio del Nuovo Testamento. Laiche, perché sono parole del comune linguaggio dell’umano. Rivoluzionarie, perché provengono dal linguaggio sovversivo e contestatore della guerra, della disumanità, di una cattiva economia e di una politica boriosa, tracotante e disastrosa. “Purtroppo però – si rammarica il Vescovo – il trinomio è stato usato male”.

A questo punto, mons. Lambiasi ‘sviluppa’ la sua idea sulla parola fraternità. La declina. Perché non è vera fraternità se non è accompagnata dalla prossimità, che non è appena vicinanza: ce lo insegna la parabola evangelica del Buon Samaritano. Non è vera fraternità se non porta con sé la solidarietà, se non esprime corresponsabilità, se non vive la dimensione della gratuità, se non è accompagnata dalla misericordia.

Ma a questo punto proponiamo direttamente il testo di mons. Lambiasi.

Il Vescovo di Rimini Francesco Lambiasi

Basta essere consanguinei o vicini per essere fratelli?
La parabola del samaritano non parla di fratelli di sangue: c’è una vittima, ci sono due individui separati che passano oltre, e c’è un terzo, il samaritano, che si china e si prende cura di quella vittima. La parabola del Buon Samaritano è essenziale per annunciare oggi una fraternità incentrata sul contrasto tra prossimità e vicinanza. A chinarsi e a soccorrere l’uomo mezzo morto imbattutosi nei briganti non furono i due passanti, oggettivamente i più vicini alla vittima.

In effetti il levita ed il sacerdote erano, come la vittima, giudei, e per di più addetti alla cura in quella società, essendo funzionari del tempio. Erano i più vicini, ma non sono diventati prossimi. Per la semplice ragion non si sono realmente avvicinati. Hanno bypassato la vittima. Sono passati oltre.

Ma cosa c’è oltre?
Oltre il dolore del malcapitato, oltre la carne sanguinante dell’uomo ferito, non c’è lo spirito. C’è il nulla. Quel sacerdote, quel levita, con tutto il loro servizio al santo tempio di Gerusalemme, non incontreranno mai Dio. “Percorri l’uomo e raggiungerai Dio”, scrive s. Agostino.

Chi si chinò sulla vittima fu invece il più lontano, da ogni punto di vista: religioso, etnico, geografico. Un Samaritano: uno straniero, un extracomunitario di oggi, vede quel malcapitato, ha compassione e si avvicina, si fa prossimo, e in quel prossimo riconosce suo fratello. Fratelli di sangue si nasce, prossimi e fratelli nello spirito si diventa.

Da notare che allo scriba che aveva chiesto al Maestro: “E chi è il mio prossimo”: Gesù risponde con una contro-domanda: “Chi ti sembra si sia fatto prossimo al malcapitato?”. La lezione è folgorante: il tuo prossimo non è chi è prossimo a te, ma colui al quale ti fai prossimo tu.

La fraternità di Francesco, che nasce dalla prossimità del Vangelo, si differenzia e si allontana così da tutte le altre fraternità che la storia ha conosciuto e conosce. Pertanto questi fratelli e sorelle non sono i connazionali. Non sono quelli che fanno parte della mia stessa comunità. Non sono i miei simili. Non è la fraternità dei tanti ‘comunitarismi’ e dei tanti ‘noi-e-gli-altri’ che oggi stanno fortemente occupando la scena dei popoli e della Chiesa. Non è la fraternità dei vicini, è la fraternità dei lontani. Non è la fraternità degli uguali, è la fraternità dei diversi.

Non c’è fraternità senza solidarietà
Una fraternità autentica non si può esprimere solo con alcuni gesti sporadici. Fraternità è pensare e agire in termini di comunità e perciò di bene comune, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di pochi.

È anche lottare contro le cause strutturali della povertà: la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È anche assumere in solido la cura della casa comune che è il pianeta. È guardare sempre in una duplice direzione: quella locale e quella universale. Evitando i due estremi: o quello di perdersi in universalismo ideologico e astratto, o l’altro: chiudersi in un localismo ripiegato e difensivo.

Come esprime efficacemente l’incisivo slogan: Think global, act local. “Un‘adeguata e autentica apertura al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino”. In alcuni quartieri popolari si intessono rapporti di buon vicinato, partendo dal senso di un ‘noi’ di quartiere, con tratti di gratuità, di solidarietà e reciprocità.(…)

Non c’è fraternità senza corresponsabilità
“Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna e di ogni anziano, con quell’atteggiamento di prossimità del buon samaritano” (n. 79). Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano: sarebbe infantile.

“Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite” (n. 77). La crisi della pandemia ci ha fatto e continua a farci capire che non possiamo salvarci da soli.

Non c’è fraternità senza gratuità
Esiste la gratuità. È la capacità di fare il bene solo perché è bene, ma non perché mi procura dei beni. Né per aspettarmi di ricavarne qualche utile strettamente privato. “Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono paesi che pretendono di accogliere solo gli scienziati” ( n. 139).

Del fratello o con il fratello non si fa mercato. Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Nessuno di noi ha pagato qualcosa per nascere o per ricevere il dono di un nuovo giorno. La vita non può ridursi a un continuo, affannoso commercio. Come non ricordare la “società del gratuito” di don Oreste Benzi?!

Non c’è fraternità senza misericordia
Caino, il fratello fratricida, non poteva essere ucciso a sua volta, pena il venire vendicato ben 7 volte. (…) Pietro aveva chiesto a Gesù se doveva perdonare fino a 7 volte, ma Gesù gli dice di perdonare fino a 70 volte 7. È vero. A volte il conflitto è inevitabile. Ma ci sono tre modi per affrontarlo.

Quello di minimizzarlo o quello di esasperarlo: ma sono strade contromano, tutt’e due. Quando la catena si spezza, l’unico modo è quello di farne un anello di ricongiunzione per favorire la riconciliazione tra le parti in conflitto. È chiaro però che “non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Amare un oppressore non significa consentirgli di continuare ad essere tale” (n. 241).

In ogni caso mai si deve dimenticare. La Shoah non va dimenticata, come non vanno dimenticati i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Perdonare non è dimenticare. Non è negare, relativizzare, dissimulare. D’accordo. Ma altro è non dimenticare il messaggio di don Oreste: “L’uomo non è il suo errore”.

La politica di cui c’è bisogno
È una politica che non si sottomette alla ‘dittatura’ dell’economia né si assoggetta al paradigma efficientista della tecnocrazia.

È una politica capace di riformare le istituzioni, di coordinarle e dotarle di buone pratiche. È efficace nei processi, tenace negli interventi, audace negli obiettivi.

È una politica che pensa a quelli che verranno, perché la terra è un prestito che ogni generazione riceve da quella precedente e deve trasmettere alla generazione successiva.

È una politica che mira al bene comune, e pertanto dice no sia a populismi che a liberalismi di vario genere, poiché minano la nozione stessa di ‘democrazia’.

È una politica che promuove il bene del popolo, garantendo ad ogni persona il lavoro, come dimensione irrinunciabile della dignità personale e della vita sociale.

È una politica che punta a raggiungere un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità che è al cuore di ogni vita sociale sana e aperta.

È una politica che coltiva un amore preferenziale per gli ultimi e si impegna favorire la loro integrazione nella società, alla luce dei principi di sussidiarietà e di solidarietà.

È una politica più capace di avviare processi fecondi, che non accanita nell’inseguire risultati spettacolari, con strategie di potere e tattiche di maquillage mediatico.

È una politica che promuove una cultura di pace, bandisce con ogni mezzo la guerra, e si propone come obiettivo finale l’eliminazione totale delle armi nucleari.

È una politica sensibile all’urgenza di trovare una soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani fondamentali.
Che Dio ci tenga le mani sulla testa e noi teniamo la testa sotto le sue mani.

+ Francesco Lambiasi