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Il miracolo dell’Epifania

Per Rimini il 1797 segna tragicamente l’inizio dei cambiamenti per merito del Generale Bonaparte. Con i suoi provvedimenti la città fu strappata al suo fragile ma rassicurante equilibrio per essere gettata nella tumultuosa spirale rivoluzionaria francese. Il 6 febbraio 3.000 soldati napoleonici si stabilirono in centro, sconvolgendo per sempre tanto l’assetto urbano quanto gli animi dei cittadini, e subito cominciarono le ruberie, le confische e le soppressioni dei conventi.
II 20 giugno venne affisso “di soppiatto” l’editto che prevedeva la soppressione di tutti gli ordini religiosi con meno di quindici sacerdoti, con l’obbligo di inventariarne tutti i beni posseduti. Essi furono definiti Beni Nazionali Rivendicati: ovvero, per diritto di conquista, spettavano alla Francia ed essa era libera di deciderne le sorti.

L’editto che sopprime
Questo editto fu soltanto il primo di una lunga serie. Le soppressioni degli ordini religiosi procedettero in massa negli anni successivi, i decreti più disastrosi furono emanati nel 1802 e nel 1805 quando si arrivò a stabilire la sussistenza di appena sei edifici religiosi. Un piano di concentrazione delle parrocchie ne decimava il numero: esse furono drasticamente diminuite e accorpate sia per dimezzare la presenza degli ecclesiastici in città sia per rendere disponibili altri edifici utili alla sistemazione dei soldati che continuavano ad arrivare. Tutto ciò causò un massiccio spostamento di conventi, monasteri, chiese e con i loro relativi beni, arredamenti e suppellettili varie, comprese le reliquie dei diversi santi che da anni riposavano in pace nei luoghi a loro consacrati.
Al pari delle altre città anche il patrimonio storico artistico riminese fu dilaniato dal vorace appetito napoleonico, ma quelle che furono giustamente definite “rapine” colpirono la città in maniera meno incisiva perché, in fin dei conti, pochi erano i tesori che custodiva.
Scossa nei secoli da forti terremoti e frequenti alluvioni, la città viveva del commercio e dell’agricoltura. Le uniche ricchezze si concentravano nelle confraternite. Purtroppo la città non aveva un censimento artistico completo risalente agli anni precedenti all’arrivo di Napoleone, di conseguenza è pressoché impossibile riuscire a restituire un bilancio preciso ed esaustivo circa le opere d’arte che andarono perse, distrutte, trafugate o vendute.
Si possono però individuare due diversi momenti di dispersione del patrimonio: il primo coincide col triennio giacobino, quando, a seguito della soppressione di molti ordini religiosi, venne a mancare un’adeguata supervisione dei beni che rimasero incustoditi all’interno di vuoti edifici.
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La Rimini che
non risponde

I furti, quindi, furono all’ordine del giorno, spesso commessi dai monaci costretti ad abbandonare l’abito o da coloro che li dovevano trasportare o sorvegliare. Il governo si accorse tardivamente di queste ruberie e i provvedimenti presi (sospensione della pensione stanziata ed esilio immediato dall’Emilia Romagna) furono tardivi e inefficaci. Si ebbe così una dispersione nella dispersione, di cui è impossibile rintracciare anche solo le linee principali in quanto mancano documenti precisi. Solo dopo l’inizio del XIX secolo è possibile ricostruire qualche passaggio grazie alla creazione dell’Agenzia Nazionale, della richiesta costante degli inventari e della nomina sia dei custodi demaniali che dei commissari napoleonici. L’amministrazione centrale infatti, emanò circolari ai principali centri del Dipartimento del Rubicone (Cesena, Faenza, Ravenna, Rimini, Forlì) chiedendo ulteriori elenchi dettagliati relativi alle opere rimaste nei conventi e monasteri soppressi. A Forlì si conserva un fascicolo riguardante gli elenchi dei quadri là inviati dalle varie città, tra di essi Rimini non compare. Semplicemente la nostra città si era rifiutata di rispondere alle varie circolari emanate in tutto il Dipartimento. Nonostante le successive sollecitazioni del Ministero degli Interni Rimini continuò a non rispondere. Resistenza purtroppo ultimata con l’arrivo del commissario Appiani nel nostro territorio nel 1809, seguito, a due anni di distanza dai commissari Boccolari e Santi. Sfogliando l’inventano napoleonico e gli elenchi pubblicati dallo studioso Luigi Centanni si può capire che Rimini aveva poco da offrire a Napoleone.

Le ricchezze
di Rimini

Furono soltanto 3 i dipinti che presero la via di Milano: la Sant’Eufemia di Donato Creti (proveniente dall’omonima chiesa soppressa), la Deposizione del Cotignola (proveniente dall’oratorio di Santa Maria in Agumine) e il San Giacomo in gloria di Simone Cantarini (proveniente dall’omonima chiesa, anch’essa soppressa). Una volta accatastati nell’ex convento milanese della Passione, questi dipinti presero direzioni opposte: l’opera di Donato Creti finì ad abbellire i muri della chiesa parrocchiale di Osnago (in Lombardia), la mal ridotta tavola raffigurante la deposizione del Cristo rimase per molti anni nei depositi di Brera fino a quando, per merito di Corrado Ricci, fu restaurata e trasportata su tela ed esposta nella pinacoteca. Infine la bella tela del marchigiano Cantarini era destinata alla Reale Galleria milanese, ma, fortunatamente, dopo la sconfitta di Napoleone, nel 1816, fu restituita alla nostra città e a tutt’oggi è esposta al secondo piano dei Musei Comunali.
Ci furono però alcuni dipinti che, pur solleticando l’appetito dei commissari, riuscirono a rimanere in città: tra questi il San Girolamo del Guercino e i due capolavori che Giorgio Vasari aveva lasciato a Rimini nel lontano 1547. Prima tra tutte l’Adorazione dei Magi presso l’abazia olivetana sul colle di Covignano. In qualità di complesso religioso, essa fu tra le prime chiese a essere soppressa, precisamente nel 1797. I monaci dovettero abbandonare l’abito e i beni finirono di proprietà dello Stato. Successivamente nel 1801 ad essa si concentrò la chiesa parrocchiale di San Fortunato, nome che è rimasto fino a oggi. Appena un anno più tardi il monastero venne venduto sottostimato a una cifra irrisoria e demolito. Furono escluse dai lavori soltanto la chiesa vera e propria (che custodiva la pala vasariana) e la casa del parroco.


Nel 1809 la direzione generale del demanio richiese la verifica dei titoli di proprietà di molte opere nel dipartimento del Rubicone. Fu un provvedimento preso per evitare la sospensione improvvisa dell’invio dei quadri a Milano nel caso in cui alcune famiglie sollevassero le istanze di proprietà, togliendo al demanio preziosi capolavori. In un documento dattiloscritto, conservato nella biblioteca Gambalunga di Rimini si può notare che, nel giugno del 1809, la pala del Vasari a San Fortunato risultava d’incerta collocazione e nulla si sapeva circa il suo stato di conservazione. Venne quindi incaricato un ricevitore demaniale a compiere personalmente alcune ricerche a Rimini. Gli esiti delle indagini furono riferite in data 26 giugno e nella lettera si affermava che l’“Epifania” era collocata sull’altare maggiore della chiesa dei soppressi monaci olivetani e dunque apparteneva al demanio. In un’altra lettera, relativa sempre alla verifica dei titoli di proprietà, datata 16 novembre 1809, si registra una dicotomia sospetta: il ricevitore demaniale, nel suo precedente rapporto, affermava che il quadro era in ottimo stato conservativo ma un documento scritto dall’arciprete della parrocchia, indirizzato al prefetto del demanio, informa circa il precario stato conservativo dell’opera. Essa infatti aveva sofferto molto e dunque non era in grado di sopportare il minimo spostamento. Ma, dal momento che l’Adorazione dei magi era stata scelta dal commissario Andrea Appiani in persona, questa affermazione rappresentava un problema da risolvere. La soluzione si trova scritta nell’ultimo documento in cui viene citata la pala vasariana di Scolca, datato al 24 luglio 1810: essendo la chiesa diventata parrocchiale ed essendo essa allora sussistente, i beni in essa conservati non erano colpiti dal sovrano decreto. La tavola di Vasari restò sul colle di Covignano, là dove il pittore fiorentino l’aveva realizzata. Sicuramente fu un vero colpo di fortuna il trasferimento della chiesa parrocchiale nell’ex abazia olivetana ma è da notare, e sicuramente da lodare, il tentativo fatto dall’arciprete della parrocchia per evitare la partenza dell’amata e stimata pala. Egli aveva provato a mentire circa l’effettivo stato di conservazione dell’opera per impedirne qualsiasi tipo di spostamento.
Questa decisione risponde allo stato d’esasperazione diffuso tra tutta la popolazione oramai stanca di continui soprusi e privazioni. Rimini, appartenendo allo Stato della Chiesa da tantissimi anni, era una città spiccatamente religiosa, e il culto e l’attaccamento alle proprie icone sacre ne era una naturale conseguenza. Inoltre, il fatto che le opere d’arte venissero sottostimate, strappate al contesto in cui erano nate, imballate in casse di legno e spedite a ingrassare i muri dei nuovi musei rappresentava un tradimento profondo nei confronti dei valori che esse rappresentavano e divulgavano.

Tratto da Il Miracolo dell’Epifania. Due tele del Vasari Scampate alle requisizioni napoleoniche a Rimini, di Eleonora Gessaroli. Pubblicato in Romagna, arte e storia, numero 92-93 del 2011. Rivista culturale diretta da Giorgio Pasini.