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Dimenticare Shakespeare

Hamlet, la pantomima - PH Daniele Ratti, Mattia Gaido

Un tenore anziché un baritono protagonista di Hamlet, nuovo allestimento del Regio di Torino  

TORINO, 15  maggio 2025 – Dimenticare Shakespeare. Non solo per le modifiche e semplificazioni che i librettisti, la collaudata coppia Michel Carré e Jules Barbier, apportano alla vicenda del principe di Danimarca. A cambiare è soprattutto il baricentro drammatico, che diventa il rapporto tra Amleto e Ofelia, laddove nel capolavoro shakespeariano occupa uno spazio ben più marginale. Del resto, quello volevano le consuetudini operistiche dell’epoca, nel 1868, quando Hamlet – opera in cinque atti di Ambroise Thomas – debuttò a Parigi. La vicenda amorosa doveva rivestire sempre un ruolo fondamentale, nonostante Shakespeare avesse incentrato la sua tragedia su temi più generali e, spesso, di carattere ontologico. Così, l’espressione «to be, or not to be» – la fulminante sintesi di Amleto sedimentatasi nell’immaginario collettivo – quando viene cantata all’inizio del terzo atto non ha più lo stesso peso, anzi corre il rischio di scivolar via inosservata: un momento fra i tanti.

Il tenore John Osborn (Hamlet) – PH Daniele Ratti, Mattia Gaido

Di rarissima esecuzione da noi, Hamlet è nuovamente andato in scena al Regio di Torino, teatro dove nel 2001 l’opera venne proposta – per la prima volta in Italia – nell’originale francese. In questa nuova produzione, però, si è aggiunta una variante assai significativa: il ruolo del protagonista è stato affidato a un tenore, in luogo del consueto baritono concepito da Thomas. E questa era presumibilmente l’intenzione iniziale accarezzata dal compositore, mai concretizzatasi perché – al momento della stesura – non c’era a disposizione un cantante di rilievo cui affidarla.

Jacopo Spirei, regista dello spettacolo, cerca di riportare l’attenzione sulle radici shakespeariane e, nonostante una cornice visiva ottocentesca di convenzionale eleganza (scene di Gary McCann e costumi di Giada Masi), utilizza numerosi figuranti intenti a sfogliare dei libri: alla ricerca di un improbabile confronto con l’originale? Desiderosi d’individuare spiegazioni più aggiornate per quello che sta succedendo?
La regia si avvale di numerose trovate: ora per rendere plausibile la presenza dello spettro del padre di Amleto, ora per descrivere l’ormai folle Ofelia quando scivola nel fiume (attraverso delle sedie in una rappresentazione immaginifica, che non ha nulla di naturalistico), ora i becchini che ne recupereranno il cadavere. Ma quella più riuscita riguarda, alla fine del secondo atto, la pantomima organizzata dal protagonista con l’intento di far emergere i ricordi dell’omicidio compiuto da zio e madre, provocandone il crollo psicologico. Nell’insieme, dunque, una messinscena densa di spunti, seppure non sempre coagulati in una visione teatrale davvero unitaria.

Il punto di forza di quest’opera resta comunque la musica (impossibile, d’altronde, eguagliare l’originale shakespeariano): la scrittura di Thomas punta soprattutto sulla varietà timbrica, che il direttore Jérémie  Rhorer ha saputo far emergere appieno. Sempre ben assecondato dall’orchestra del Regio, ha valorizzato quegli strumenti che assumono un significato quasi descrittivo nei confronti dei vari personaggi: il violoncello per Amleto, il flauto per Ofelia, il sassofono per le scene spettrali. Al contempo si è rivelato prezioso il contributo dell’ottimo coro (preparato da Ulisse Trabacchin) per il quale Thomas scrive pagine di gran pregio, a cominciare da quelle di esordio nel primo atto.

Per una produzione così impegnativa è stato coinvolto un buon cast. Punto di forza naturalmente il protagonista: John Osborn, ossia uno dei massimi tenori di oggi – non era consentito sbagliare la scelta – sempre suadente in una scrittura baritenorile e in grado d’imprimere agli slanci in acuto stupefacente naturalezza, attraverso un canto morbido e fluido. A contendergli il successo la bravissima Sara Blanch: la grande scena della pazzia, che evoca la tradizione soprattutto tedesca delle cosiddette villi (ossia le fanciulle abbandonate dall’innamorato), è un notevole banco di prova. Il soprano spagnolo l’ha affrontata con assoluta scioltezza – glissandi di perfezione quasi strumentale – senza mai cedere a un lezioso virtuosismo e mantenendo sempre un’emozionante intensità espressiva. Gli altri personaggi sono dei satelliti, ma non per questo meno significativi: a cominciare dal mezzosoprano Clémentine Margaine, la regina Gertrude, di voce compatta ed emissione perfettamente omogenea. Molto apprezzabile, per la solidità dei mezzi tenorili, Julien Henric, nei panni di Laerte, fratello di Ofelia. Di minor pregio, invece, il versante dei bassi. A cominciare da Riccardo Zanellato, il re assassino e usurpatore, apparso un po’ troppo fioco; per non parlare del veterano Alastair Miles, forse ormai fuori tempo massimo pure per evocare uno spettro. Fra i comprimari una menzione speciale va all’Orazio empatico e trasecolato di Tomislav Lavoie.

Notevole successo di pubblico: nonostante la lunghezza della partitura forse si poteva azzardare un’esecuzione integrale, senza sforbiciature alle danze e a qualche momento corale.

Giulia  Vannoni