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Vescovo: il carisma della sintesi

Attraverso la contemplazione della Trinità di Andrej Rublëv monsignor Francesco Lambiasi ha avviato il suo intervento sul tema “Il dono dell’unità e le vie della perfetta comunione”, svoltasi lunedì 22 marzo 2010, al termine dell’itinerario quaresimale diocesano “… E di me sarete testimoni”.
La riflessione del Vescovo della Diocesi di Rimini sulla Comunione è stata introdotta dalla riscoperta del rapporto Trinitario.
Nell’icona del pittore russo si evidenzia una relazione tra le tre Persone ed è l’espressione del “mistero centrale della fede cristiana: essendo Dio una comunione di persone, la forma di vita che esprime tale realtà non può che essere la vita di comunione nella comunità ecclesiale. Dunque non è tanto il triangolo o il trifoglio l’immagine più vera della santa Trinità, ma la comunione tra «due o tre» fratelli (cfr.Mt 18,20) che vivono con un cuor solo e un’anima sola”.
La comunione trinitaria che è comunione dei Tre: se Dio fosse Unico come Persona, in conclusione esisterebbe solo la solitudine. E se ci fossero solo due Unici, il Padre e il Figlio, ci sarebbe primariamente la separazione, mancherebbe la comunione. Con la trinità si evita la solitudine dell’Uno, si evita la separazione dei Due e si raggiunge la comunione dei Tre. Noi crediamo in un solo Dio, ma non in un Dio solitario: un Dio-Amore e comunione, che è Padre e Figlio e Spirito Santo”.

Nasce così la Spiritualità di comunione.
“Essa ci permette, concretamente, di instaurare con la grazia dello Spirito Santo relazioni interpersonali improntate sul modello trinitario: non gli uni senza gli altri, gli uni sopra o contro gli altri, ma gli uni con e per gli altri, gli uni negli altri”.

La Trinità esprime comunione e la comunione porta alla Chiesa. I padri concilari hanno dato “respiro” e “rivitalizzato” la Chiesa mettendo in evidenza una nuova ecclesiologia.
“Prima del Concilio l’immagine prevalente per parlare della Chiesa era quella, paolina, della Chiesa come corpo di Cristo. Il Vaticano II ci ha aiutato a riscoprire l’immagine biblica di popolo di Dio. Dopo il Vaticano II l’ecclesiologia e la teologia spirituale ci hanno riproposto l’immagine della Chiesa-sposa di Cristo. Si tratta di tre immagini «ispirate» e dunque non solo pienamente legittime, ma tutt’e tre necessarie. L’immagine della Chiesa-popolo ha il pregio di mettere in luce la dimensione storica, visibile, pellegrinante del popolo di Dio; l’immagine del corpo esprime l’unità di essere tra Cristo e la Chiesa; quella di sposa mette in luce la loro irriducibile distinzione: ricorda che l’unione tra Cristo e la Chiesa non è personale-«ipostatica», come quella dell’umanità e della divinità, unite nella persona del Verbo incarnato, ma è una unione interpersonale, tra esseri che stanno l’uno di fronte all’altro come lo sposo e la sposa”.

La Chiesa è anche segno della Nuova Alleanza tra Dio e gli uomini. Lo Spirito unisce la divisione che si era generata tra gli uomini nella loro pretesa di unità egemonica rappresentata dalla torre di Babele. Essa nasce nel giorno di Pentecoste, ma definire la Chiesa non è comunque un compito facile.
“È difficile racchiudere il mistero grande della Chiesa in una parola. Eppure una parola c’è, non la dobbiamo inventare noi: è comunione. È il concetto chiave per interpretare l’ecclesiologia del Vaticano II. È connessa con un’altra idea chiave, quella del popolo di Dio, frutto del disegno divino di salvezza, che procede dal Padre e culmina nell’evento Cristo con la missione dello Spirito Santo. Il legame della Chiesa con Cristo è irrinunciabile.
Credere che la Chiesa è comunione significa affermare che essa non è un’idea, ma una relazione, che la Chiesa si genera, non si produce”.

Al servizio della Chiesa
Ma se la Chiesa è comunione, cosa significa il fatto dell’esistenza di pastori e di capi, cioè dell’autorità e della gerarchia nella Chiesa?
“Noi oggi viviamo nella cultura della partecipazione, non più in quella della delega. Nella scuola, nella politica, nel lavoro, al sistema della rappresentanza è subentrato quello della partecipazione diretta. La gente è sempre più disamorata delle logiche che la vogliono ridurre a semplice serbatoio di consensi e di voti; è stanca di essere tenuta in stato di minorità. Anche nella vita della Chiesa è in atto una crisi del genere; ma questa crisi, anziché scardinare la «visione cattolica» della Chiesa, la sta purificando e rinnovando.
A questo modello di Chiesa, basato sulla rappresentanza, il Concilio ha cominciato a sostituire il modello basato sulla partecipazione diretta, lo ha fatto in vari modi e in varie occasioni: riscoprendo il ruolo della collegialità dei vescovi, la Chiesa locale, l’importanza dei laici e degli organismi di partecipazione, come i consigli presbiterali e pastorali. La convinzione comune in tutti questi fatti è che Dio non agisce solo in una direzione – dal vertice verso la base -, ma anche nell’altra direzione: dalla base verso il vertice. Con la varietà dei carismi e dei ministeri che lo Spirito Santo suscita direttamente e liberamente nel vissuto quotidiano e concreto della Chiesa, nasce una ricchezza che ricade a vantaggio di tutta la Chiesa stessa. Certo, alla gerarchia spetta il compito di discernere e autenticare i carismi, non però quello di crearli.
Nel Nuovo Testamento non c’è mai la parola gerarchia: dove noi ci aspetteremmo questa parola, troviamo invece la parola diakonia, ministero, servizio: apostoli, pastori e maestri sono per il servizio della comunità; gli apostoli sono servitori (diakonoi) di Cristo e dispensatori dei suoi misteri (cfr. 1Cor 4,1)”.

Se torniamo all’immagine ignaziana della Chiesa-coro, quale ruolo occupa la figura del Vescovo?
“Potremmo rispondere così: nel «coro» che è la Chiesa il vescovo non ha la sintesi dei carismi, ma ha il carisma della sintesi. Non gli compete l’assolo, gli compete la responsabilità di evitare i due estremi: quello in cui uno vuole essere il tutto del coro, e quello in cui ognuno vuole essere il tutto. Nel primo caso si verificherebbe il centralismo estremo; nel secondo, quello dell’individualismo estremo: si tratta di due rischi diametralmente opposti e ugualmente mortali, che finiscono per eliminare in radice ogni possibilità di «fare coro». Tocca al vescovo invece il dono e la responsabilità di «far fare coro», secondo quella spiritualità di comunione, senza la quale la Chiesa si dissolve”.

Francesco Perez