Una vita dedicata alla dignità degli altri

    Ha trascorso l’intera vita professionale a restituire dignità a quei malati che per la medicina e la sanità non erano neppure persone. Per anni è stato il braccio destro psicologico di don Oreste. Ed ora, forte di 550 articoli e pubblicazioni apparsi in tutto il mondo, e di un’attenzione continua alla persona privata della loro dignità, è stato nominato Professore Emerito dal Ministero dell’Università. È uno dei dieci emeriti a riposo, un’istituzione nel campo della psichiatria italiana, e dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia, ma Gian Paolo Guaraldi, 75 anni, è un riminese doc. “A Rimini ho trascorso tutta la mia giovinezza, e qui mi sono formato come studente e come uomo”.
    Per la verità, la carta d’identità recita, alla voce “luogo di nascita”, Lugo di Romagna, ma Gian Paolo con quella cittadina non avrà nulla a che fare. Il padre, quando il figlio ha appena pochi mesi, è nominato Direttore della Cassa di Risparmio e approda a Rimini. È il 1935.
    Riminese, dunque, prof. Guaraldi?
    “A Rimini ho trascorso la mia giovinezza, è il luogo della mia formazione. Anche durante il periodo universitario a Bologna, sono rimasto all’ombra dell’Arco d’Augusto: facevo il pendolare, su e giù dalle Due Torri con la Freccia dei Due Mari. Solo dopo la laurea, a 23 anni, mi sono trasferito a Modena, per muovere i primi passi nella carriera accademica”.
    Il dopoguerra riminese è un periodo percorso da grandi fermenti in campo educativo e giovanile.
    “L’intuizione di Gigi Zangheri, di reimpiantare gli scout a San Gaudenzo, è stata felicissima. Ma è anche il periodo di don Angelo Campana a San Nicolò al Porto. Puntare su un movimento associazionistico che comportava una divisa, dopo le esperienze fasciste dei vari balilla, non era facile. Ma Zangheri ebbe ragione.”
    Un certo don Oreste confessava i ragazzi in un ufficietto di fianco al Tempio Malatestiano, dove oggi c’è l’ingresso degli Arredi Sacri Semprini.
    “Davanti alla sua porta c’era sempre la fila. Come pure una folla di adolescenti partecipava ai vari campeggi che organizzava in montagna. Era il mio confessore”.
    Quel rapporto è proseguito con gli anni, arricchendosi di aspetti nuovi e sempre più profondi.
    “Una stima e un’amicizia che è sfociata fino al ricordo che del ’sacerdote con la tonaca lisa’ ho tenuto alla Grotta Rossa subito dopo la morte del don. In montagna, a Canazei alla Casa Madonna delle Vette, in parrocchia alla Grotta Rossa, nelle prime case famiglia, da neuropsichiatria infantile ho prestato la mia consulenza professionale a don Oreste e agli ospiti della sua comunità.
    Fino ad ospitare più volte il don a casa sua, a Modena, quando in località “La Bruciata” organizzava le prime catene umane contro lo sfruttamento della prostituzione.
    “Don Oreste si batteva per gli emarginati, mentre io sul piano professionale cercavo di dare dignità e diritto di cittadinanza a quei soggetti con malattie psichiche per i quali la società e la sanità pubblica negavano ogni diritto. Don Oreste veniva spesso a casa mia, a Modena, ma con il suo stile di «toccata e fuga». I suoi impegni non ne  consentivano altri già allora. Alla Bruciata mise in piedi le prime catene umane, alle quali parteciparono anche i miei figli.
    Uno di loro, Filippo, nel frattempo è divenuto sacerdote ed ora è parroco proprio alla Bruciata.”
    La storia si ricompone.
    “È un regalo del destino con la D maiuscola. Quello che don Oreste ti metteva di fronte. Del fondatore della comunità papa Giovanni XXIII mi ha sempre colpito il fatto di chiamarmi “fratello mio”: per lui eravamo veramente tutti fratelli, figli dell’unico Padre, indipendentemente dai ruoli che ciascuno ricopriva.”
    Il rapporto con don Oreste e la comunità papa Giovanni XXIII è proseguito, e lei è stato chiamato più volte in causa come neuropsichiatra infantile.
    “Ho prestato la mia opera anche per la comunità di Montetauro, oltre che per la Papa Giovanni XXIII.”
    Nonostante sia uscita da una certa indefinitezza, la malattia psichica fa ancora molta paura.
    “È bene fare chiarezza. Un certo «disagio psichico» è normale nella vita delle persone. Nel nostro itinerario di sviluppo andiamo incontro ogni giorno ad alti e bassi della vita a seconda che incontriamo fattori di protezione o fattori di vulnerabilità è fondamentale dunque tener distinto il «disagio» dalla «malattia» psichiatrica vera e propria.
    La peculiarità della psichiatria è la necessità di contaminarsi con «culture» non strettamente mediche come la sociologia e la psicologia. Per questa ragione la pratica della Psichiatria è più legata al contesto della Società nella quale viene esercitata. Nella mia attività scientifica e di assistenza ho, consapevolmente, mirato a mantenere queste due dimensioni: quella «scientifica» e quella «laica», disposta al confronto con altre dimensioni culturali. È ovvio che l’attenersi alla prima dimensione produce una qualità diversa dei curricula – a prescindere dalle preoccupazioni per le ricadute sociali – , è altrettanto ovvio che la seconda dimensione produce una psichiatria più attiva nella società, ma meno traducibile in codici scientifici internazionali”.
    La relazione con le altre scienze “regalano” anche un approccio globale al soggetto, che prima di tutto è una persona.
    “Val la pena ricordare che prima della riforma psichiatrica del 1978, chi soffriva di disturbi della psiche non era neppure considerato “malato”,venendo relegato in Ospedale Psichiatrico e non nell’Ospedale Generale. Grazie anche all’apporto di una psichiatrica italiana all’avanguardia nel mondo, in questi decenni sono stati ottenuti dei grandi progressi per la dignità della persona con malattia mentale  facendo ricorso soprattutto alla cura sul territorio. Il servizio sanitario nazionale fino alla riforma non pagava la malattia psichiatrica,come ad esempio l’anoressia nervosa.
    A 75 anni continua a studiare e a battersi per garantire dignità a chi soffre di disturbi della psiche.
    “L’Università mi offre ancora la possibilità di fare lezione, e con un team di validissimi collaboratori sono ancora impegnato nella ricerca. Insomma, non soffro davvero della sindrome del pensionato.”
    Un’attività così intensa la tiene però lontana da Rimini, dove oltre ai ricordi ha ancora molti amici e parenti.
    “Sa una cosa? Quando ero più giovane, scappavo volentieri da Rimini per andare in montagna. Oggi invece apprezzo il mare in maniera speciale. Il mare d’inverno, poi, non è solo un film in bianco e nero come cantava Enrico Ruggeri, ma quando è avvolto nella nebbia è portatore sano di un fascino tutto felliniano.”

    Paolo Guiducci