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Una vita da effetti visivi

IL PERSONAGGIO. Michelangelo Frisoni, classe 1991, è partito da Rimini e ora lavora per una grande azienda canadese. “Realizzo scene impossibili”

Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha visto un film con scene rappresentanti magari un aereo che precipita; un’esplosione catastrofica; uno tsunami travolgente. E, naturalmente, ognuno di noi sa che è solo ‘finzione’. Molto probabilmente, tutti o la maggior parte di noi, li chiama ‘effetti speciali’. E in un certo senso sì, speciali lo sono. Tuttavia esiste una distinzione precisa tra quelli che sono i veri ‘effetti speciali’ e quelli che invece sono definiti ‘effetti visivi’.

La differenza ce la spiega bene Michelangelo Frisoni, che si occupa proprio di questo.

Classe 1991, Frisoni è un uomo eclettico, energico e determinato, che a soli 20 anni ha afferrato la sua carriera in mano e ne ha fatto qualcosa di grandioso, viaggiando tra l’Italia, gli Stati Uniti e il Canada.

Michelangelo, ci spieghi come mai effetti speciali ed effetti visivi non sono la stessa cosa.

“Sono due concetti totalmente diversi, seppur con lo stesso fine ultimo. I primi sono anche chiamati Sfx e vengono realizzati ‘in camera’, in live-action (in diretta, ndr), riproposti dunque nella realtà. Inseguimento tra auto, finte ferite: sono effetti speciali. Gli effetti visivi, invece, anche chiamati Vfx, vengono ideati per proporre un avvenimento che non potrebbe – per ovvie ragioni – verificarsi in modo naturale o spontaneo durante le riprese di un film, sono dunque i vari processi con cui un’immagine è creata e/o modificata, fuori dal contesto di una ripresa live action. Come ad esempio possono essere i sopracitati disastri come uno tsunami, un’esplosione, un aereo che cade”.

Lei, si occupa di quale dei due, nel suo mestiere?

“Io sono un Compositor Lead di Visual Effects, dunque dei secondi. Sono colui che si ‘nasconde’ dietro le scene del film Godzilla, ad esempio. Oppure delle battaglie di

1917 o le avventure di Sonic o alcuni frame famosi di Stranger Things. Insomma, colui che si occupa di tutte quelle immagini generate per creare ambienti che sembrano realistici, ma che potrebbero essere troppo pericolosi, costosi o semplicemente impossibili da riprendere dal vivo. Il mio lavoro se fatto bene… non si vede!”

E come ci è giunto a questo particolare incarico?

“Una serie di fortunati eventi, il destino, la forza di volontà. Un mix perfetto. La mia passione nasce molto tempo fa e ha una data precisa: 1998. Ero poco più che un bambino e con mio padre mentre ero incantato a guardare la videocassetta del film Matrix, sono rimasto folgorato da alcune scene: personaggi che camminavano sui muri; altri che schivavano proiettili come fossero popcorn… non ci potevo credere. Mi domandavo come fosse possibile. L’arcano si è svelato (più o meno) alla fine della proiezione, quando sono comparsi alcuni squarci del backstage: gli attori recitavano davanti ad un grande schermo verde. All’epoca, naturalmente, non riuscivo bene a capire, ma se dovessi tornare indietro con la memoria, quella circostanza è stata per me l’origine di tutto.

Poi, sempre nel 1998, anche un videogioco per la Playstation 1, ha avuto lo stesso effetto su di me: Metal Gear Solid. Era un gioco di spionaggio, d’azione, che traeva spunto da vari film. Piano piano, crescendo, ho capito come la tecnologia si piegasse per favorire lo storytelling, la cronologia di una storia. È stato allora che ho capito che ‘da grande’ avrei voluto lavorare per questo”.

Ci racconti come ha inseguito il suo sogno.

“Una volta completato il liceo, nel 2012 mi sono trasferito a Hollywood all’età di 20 anni per frequentare alcuni corsi di regia e post-produzione presso la Ucla (University of California – Los Angeles). Con un ardente desiderio di imparare e una forte determinazione nel dare vita alla mia passione, mi sono fatto coraggio e sono andato oltre Oceano. Non senza troppe difficoltà, aggiungerei. Già al mio arrivo in aeroporto americano: il panico. Mi viene detto che il mio visto turistico non era compatibile con il motivo per il quale dichiaravo di voler entrare nel Paese, mi sarebbe servito il visto da studente. Con il mio inglese incerto cerco di spiegare che in ambasciata mi era stato assicurato che il numero di ore di lezioni rientrava in quello turistico. E, dopo un bello spauracchio e una chiamata in lacrime a mia mamma pregandola di inviarmi un bonifico per rientrare in Italia, però, riesco a risolvere tutti i malintesi. Finalmente ero lì, la patria del grande cinema.

Come muovermi? Già in adolescenza avevo iniziato a seguire dei tutorial su Youtube per la realizzazione di effetti visivi e mi ricordavo che in qualcuno di loro compariva anche un ragazzo italiano. Decido di contattarlo, così, per scrupolo.

Non pensavo mi avrebbe mai risposto. E, invece, non solo lo fa, ma mi invita anche su un set perché stava lavorando ad una web serie. Non ci potevo credere”.

È stato dunque catapultato subito con le ‘mani in pasta’.

“Esatto. Non solo, mi dice che mi avrebbe affidato anche un progetto che stava seguendo per degli studenti universitari.

‘Gratis, però’. Non me lo sono fatto ripetere due volte e il giorno dopo ero già in studio pronto a lavorare. Incredibile ma vero, mi viene presentato anche il famosissimo Freddy Wong che mi accoglie nel suo team e mi insegna qualche trucchetto del mestiere. Il bello degli Stati Uniti, del vero ‘sogno americano’, è che loro ti guardano per quello che sei, quello che intendi e vuoi donare, e non per le tue competenze.

Anche perché io, all’epoca, non ne avevo molte. Sono stati sei mesi intensi e frenetici, ma splendidi. Allo scadere del mio visto, però, sono rientrato a malincuore a Rimini. Avrei dovuto aspettare almeno l’anno successivo per tornare negli Usa”.

E cos’ha fatto nel frattempo?

“Ho iniziato subito ad adoperarmi per poter ottenere un visto O1-B che consente di rimanere e lavorare sul suolo americano per via delle abilità che dimostri di avere. È un processo lungo e nell’estenuante attesa ho lavorato da remoto ad alcuni progetti per l’America e per un’azienda in Veneto che mi ha permesso di sviluppare ulteriormente le mie competenze. Sono poi tornato varie volte negli Usa, sempre per poco tempo, e ho collaborato alla realizzazione di alcuni film, di pubblicità e video musicali.

Poi un’altra svolta nel 2016.

Stavo guardando una serie tv su Sky, The Strain. Nei titoli di coda, ecco spuntare il nome di un altro italiano per gli effetti visivi. Prendo il pc e gli scrivo una mail per chiedergli come avessero realizzato una specifica scena di un episodio. Lui mi risponde quasi subito e anzi si rende disponibile a chiarire altre curiosità. Nasce così una corrispondenza virtuale di qualche settimana, fino a che non mi chiede di andare a Toronto, presso la stessa azienda dove lavorava lui. Ancora una volta mi sembra di vivere in un film: preparo le valigie e parto. Da quel momento in poi la spola tra il Canada e l’Italia prosegue fino al mio definitivo rientro a Rimini nel periodo della pandemia, continuando da remoto. Va più che bene, mi sposo e sono felice di lavorare come freelance. E, da allora, collegato e sintonizzato agli orari della mia azienda canadese, la Double Negative, lavoro da casa a partire dalle 15 (ora italiana) fino alle 24”.

È felice?

“Sì, e molto appagato. Certo, questi ritmi per ora vanno bene perché io e mia moglie non abbiamo ancora figli, quando diventerò padre, vedremo come riorganizzare tutto. Ma per ora sono contento: svolgo un lavoro che adoro, collaboro a progetti pazzeschi e mi sono costruito un nome di tutto rispetto. Ringrazio il Michelangelo adolescente che non ha mai mollato e si è dato sempre da fare. Perché alla fine, siamo noi i creatori del nostro destino, i primi sostenitori di noi stessi”.

Ai giovani di oggi cosa consiglia?

“Viaggiate, esplorate, non accontentatevi. Non abbiate timore, dall’altro lato della paura c’è un mondo meraviglioso che aspetta solo voi”.