A Jesi celebrato il duecentocinquantenario dalla nascita di Gaspare Spontini con il suo capolavoro La vestale
JESI, 18 ottobre 2024 – I pionieri aprono una strada. Quelli che vengono dopo s’immettono così in un percorso già tracciato: alcuni eguagliandone i risultati e altri, più spesso, superandoli. Gaspare Spontini, con La vestale composta per Parigi in piena età napoleonica (1807), si muove nell’ambito di un filone classicista – cui appartiene questa tragédie-lyrique in tre atti – che numerosi compositori prenderanno a punto di riferimento. Primo fra tutti Bellini, attraverso un capolavoro come Norma. Ma l’influenza del compositore marchigiano si estenderà ad ampio raggio e persino l’amicizia maschile tra Licinius e Cinna appare antesignana di quella che innerva il Don Carlo verdiano. Ad apparire di sorprendente modernità, tuttavia, è soprattutto il sinfonismo di Spontini applicato alle strutture vocali: arioso e declamato trascolorano senza soluzione di continuità, eliminando dal tracciato musicale il rischio – che nel melodramma neoclassico è talvolta dietro l’angolo – di blocchi troppo rigidi e separati fra loro.
Nel duecentocinquantenario dalla nascita del compositore nativo di Maiolati, paese a pochi passi da Jesi (che ha dato invece i natali a Pergolesi), e dove il musicista ritornò a vivere negli ultimi mesi della sua esistenza dopo una gloriosa carriera internazionale, la Fondazione Pergolesi Spontini ha reso omaggio al genius loci con numerose iniziative, a cominciare dal concerto diretto da Muti pochi mesi fa. Il nuovo allestimento della Vestale è certamente la più impegnativa, mentre a fine novembre andrà in scena la prima esecuzione in tempi moderni dell’opera buffa I quadri parlanti: sebbene il registro comico, praticato durante il periodo di apprendistato, sia assai meno congeniale a quest’autore dalla natura austera e spirituale (non è un caso che godesse dell’ammirazione incondizionata di Wagner).
Lo spettacolo visto al Teatro Pergolesi portava la firma di Gianluca Falaschi, che concepisce un unico impianto scenico delimitato da un’elegante cornice marmorea, occhieggiante alla tragedia greca sebbene il libretto di Étienne de Jouy preveda il lieto fine, pedaggio alle convenzioni dell’epoca. Fra le tante sollecitazioni di quest’allestimento, che corrono perfino il rischio di essere dispersive, la più significativa è la consapevolezza che a riportare al successo quest’opera, nel 1954, fu la Callas in un memorabile spettacolo di Visconti, in italiano e con qualche taglio, però, come allora era prassi. La protagonista dunque s’ispira qui alla divina Maria, e il suo abito di scena è un’esplicita citazione di quello realizzato all’epoca dal grande Piero Zuffi (pure gli eleganti abiti degli altri interpreti e del coro sembrano guardare agli anni cinquanta): un espediente non nuovo, ma che offre al pubblico un significativo riferimento, dato che proprio alla Callas si deve la notorietà dei pochi brani della Vestale rientrati nella memoria storica degli ascoltatori.
L’Orchestra La Corelli era guidata da Alessandro Benigni, che ne ha tratto sonorità corrette; e la sua lunga attività come maestro preparatore, più che d’uomo di podio, gli è stata utile soprattutto per sostenere i cantanti nell’ardua prova. Al suo debutto nel ruolo della protagonista, il soprano Carmela Remigio ha puntato sulla sua esperienza e sulle spiccate doti di musicalità: l’inevitabile trascorrere degli anni l’ha resa piuttosto scabra nelle morbidezze più liriche, mantenendo invece un’indubbia efficacia sul versante tragico. L’anomalia di due protagonisti maschili concepiti da Spontini l’uno per tenore “centrale” e l’altro senza meno per baritenore è stata risolta, nello spettacolo di Jesi, senza optare per due vocalità tenorili diverse per colore ed estensione. Il ruolo eroico-amoroso di Licinius (Franco Corelli con la Callas) è stato infatti affidato a Bruno Taddia, in teoria un baritono acuto, ma dalla voce non abbastanza tonda per galleggiare su un’orchestra come quella spontiniana. Una piacevole sorpresa è arrivata invece da Joseph Dahdah, come interprete di Cinna – lui sì tenore – per la sicurezza dell’emissione e il bel timbro limpido. Il mezzosoprano Daniela Pini ha impresso alla figura della Grande Vestale una certa complessità psicologica: severa nel difendere lo status quo legato al suo ruolo, eppure anche materna ed empatica. A interpretare il più inflessibile Gran Sacerdote era invece il basso Adriano Gramigni: oltremodo sonoro quando cantava da solo, ma quasi inudibile nei momenti d’insieme.
Fondamentale, nella Vestale, è poi l’intervento del coro: quello del Teatro Municipale di Piacenza, preparato come sempre da Corrado Casati, ha fornito l’ennesima testimonianza di solida professionalità. In un’esecuzione quasi integrale come questa non potevano poi mancare i momenti statutari di danza, seppure con qualche lieve (e oggi forse inevitabile) sforbiciatura: qui agivano in scena solo otto bravissimi danzatori, capaci, grazie alle sapienti coreografie di Luca Silvestrini, d’innestare nell’intelaiatura neoclassica dell’opera squarci di suggestiva modernità.
Una volta tanto lo spettacolo visto al Teatro Pergolesi non si esaurirà con queste due recite, ma sarà possibile vederlo a Piacenza, Pisa e Ravenna con i quali Jesi ha realizzato l’impegnativa coproduzione.
Giulia Vannoni