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Una riflessione cingolata sulla guerra

Tank americani contro Panzer tedeschi: una didascalia all’inizio di Fury, nuovo film di David Ayer (regista e sceneggiatore del film, in precedenza ha firmato Harsh Times e End of Watch e ha scritto, tra gli altri, il primo Fast and Furious) ci ricorda che i primi erano in difficoltà rispetto ai teutonici avversari, più potenti e più robusti, eppure lo Sherman guidato dal sergente Don Cutler (Brad Pitt) e la sua squadra (composta da Shia LaBeouf, Micheal Peña, Jon Bernthal e l’ultimo arrivato, il giovane Logan Lerman, costretto a trasformarsi suo malgrado in “macchina da guerra”) è un avversario da non sottovalutare. Il carro armato di Cutler diventa protagonista quanto gli attori umani in un film che non va per il sottile nell’evidenziare un clima di guerra (siamo nel 1945, vicini alla fine del conflitto e “Fury” è di stanza in Germania per fermare l’ultima, disperata resistenza dell’esercito tedesco) costruito su sangue, fango, dolore, orrore e desolazione, tra villaggi abbandonati, scene da pugno nello stomaco (ecco perché il film va consigliato ad un pubblico adulto) con corpi di cittadini tedeschi penzolanti da forche improvvisate, puniti per la loro codardia in una generale atmosfera drammatica amplificata che rivela tutta la violenza dell’infernale abisso del conflitto. Duro e tosto, delineato dallo sguardo lacrimante del più giovane, catapultato in un mondo senza più speranza (nemmeno la parentesi sentimentale a metà film con una fanciulla tedesca offre possibilità di uscita dalla morte) e trasformato in un brutale guerriero, Fury è war movie di forte impatto, con una sua filosofia di guerra non certo per cuori teneri o ultra pacifisti, ma con anche un occhio attento alla mostruosità realizzata dal conflitto.

Il Cinecittà di Paolo Pagliarani