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Una resurrezione contemporanea

Oratorio La Resurrezione, Basilica di Massenzio - Ph Fabrizio Sansoni

La resurrezione, oratorio di Händel scritto per Roma, allestita in forma scenica nella basilica di Massenzio 

ROMA, 1 luglio 2025 – Far rivivere le emozioni suscitate dalla morte di Gesù tra coloro che lo avevano accompagnato negli ultimi istanti di vita terrena – erano questi gli intenti di Carlo Sigismondo Capece scrivendo per Händel il libretto La Resurrezione – non è impresa facile: tanto più se si vuole andare oltre la dimensione originaria dell’oratorio e darne una rappresentazione teatrale. Proprio questa, però, è stata la linea adottata al Festival di Caracalla, quest’anno suddiviso in spettacoli allestiti fra i resti delle omonime terme e altri nei ruderi della Basilica di Massenzio.

Il soprano Ana Maria Labin (Maddalena) e il tenore Charles Workman (San Giovanni) – Ph Fabrizio Sansoni

Appunto Massenzio ha ospitato il titolo inaugurale: quella Resurrezione che Händel compose nel 1708, durante il suo primo soggiorno romano. A firmare lo spettacolo è Ilaria Lanzino, regista con un’intensa attività artistica in area tedesca, ma fino ad oggi poco nota nel proprio paese: sua è l’efficacissima idea di trasformare il soggetto sacro nella storia di una famiglia di oggi, in lutto per la perdita improvvisa di un bambino. Mettendo in disparte l’episodio alla base del libretto, concentrato ovviamente nel breve intervallo tra venerdì santo e domenica di Pasqua, i dilemmi della fede di fronte alla morte vengono così trasferiti all’attualità.
L’adesione emotiva che scatta nello spettatore – in questa singolare declinazione contemporanea della grammatica degli affetti del teatro barocco – è immediata, a cominciare dallo straziante funerale del bimbo a inizio spettacolo. Un po’ alla volta rivivono, attraverso flashback quasi cinematografici, gli episodi che precedono la morte del piccolo e il deterioramento dei rapporti familiari conseguenti alla tragedia; mentre alla fine, in luogo del Cristo risorto, si vedrà arrivare in palcoscenico il bambino che cammina sulle proprie gambe. Una riscrittura così radicale, tuttavia, avrebbe potuto lasciare spazio (a teatro non è necessario spiegare sempre tutto) ad una parte di “non detto”. La regista opta invece per un accentuato didascalismo, a cominciare dai personaggi più difficilmente riadattabili all’oggi: l’Angelo e Lucifero. La contrapposizione è stata risolta più che altro sul piano visivo, con le maestose ali del primo (costumi di Annette Braun) e il fluid gender del secondo, che d’altronde in origine era a sua volta un angelo, sebbene caduto.

A fronte di un impatto concettuale così incisivo – anche le scene di Dirk Becker sembrano procedere per “segni”, piuttosto che per elementi scenografici veri e propri – erano necessari interpreti di personalità canora altrettanto forte. In questo nuovo allestimento romano, nell’insieme, c’erano. In possesso di notevoli mezzi vocali, nel ruolo della Maddalena (qui madre del bambino) il soprano rumeno Ana Maria Labin è stata efficacissima nel trasmettere la sua disperazione e il rifiuto ad accettare il mistero della morte. San Giovanni, uomo di fede profonda e dotato di piena fiducia nella risurrezione, nello spettacolo diventava invece il papà: l’ha incarnato un veterano come il tenore Charles Workman, la cui voce con gli anni è divenuta un po’ metallica (e l’amplificazione, necessaria negli spazi di Massenzio, in questo l’ha quasi avvantaggiato). Al contrario, i microfoni hanno un po’ penalizzato il caldo timbro mezzosopranile di Teresa Iervolino, che resta comunque un’ottima stilista, capace d’imprimere a Maria di Cleofe, trasformata nella nonna, un atteggiamento altalenante, a metà strada tra le solide certezze di Giovanni e lo smarrimento religioso di Maddalena. Sara Blanch ha avuto ancora una volta occasione di esibire tutta la sua bravura nell’affrontare le colorature del virtuosistico ruolo dell’Angelo, seppure a loro volta rese un po’ meccaniche dalla microfonazione, mentre il baritono Giorgio Cauduro – non sempre a suo agio in una scrittura per lui troppo grave – ha disegnato con efficacia scenica un Lucifero tormentato e borderline.

Alla guida dell’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori era uno specialista di questo repertorio come il direttore greco George Petrou, che ha ottenuto sonorità stilisticamente sempre pregevoli. Anche per i bravi strumentisti valgono i limiti legati all’amplificazione, che non mette al riparo da qualche squilibrio, senza tuttavia ridimensionare la proverbiale ricchezza timbrica di Händel. D’altronde, lo scotto pagato per lo spazio aperto era compensato dalla magnifica cornice di Massenzio.

Giulia  Vannoni