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Un capolavoro inossidabile

Lucia di Lammermoor - Ph ©RolandoPaoloGuerzoni
Lucia di Lammermoor - Ph © RolandoPaoloGuerzoni

Nella Lucia di Lammermoor, terzo e ultimo titolo della stagione operistica del Teatro Galli, svetta la protagonista Gilda Fiume  

RIMINI, 5 novembre 2021 – Fra i tanti ritratti femminili della galleria operistica, Lucia di Lammermoor emerge con la stessa potenza di certe eroine verdiane o con quella che caratterizzerà, più tardi, le figure disegnate da Puccini. Il libretto di Salvatore Cammarano (alle spalle c’è un romanzo di Walter Scott) è ben costruito e la musica di Donizetti riesce a dosare con mirabile equilibrio lo struggente lirismo di alcune scene all’impeto ritmico e drammatico di altri momenti d’insieme, rendendo il dramma di Lucia così coinvolgente da far entrare gli ascoltatori in totale risonanza con la protagonista. Peccato che spesso il capolavoro di Donizetti venga massacrato dai tagli.

Le intromissioni familiari sulle scelte affettive delle donne adesso non sono più attuali come un tempo, almeno nella parte del mondo in cui viviamo, ma nemmeno così lontane dalla realtà odierna, dove sopravvivono ancora in tanti altri luoghi. Troppi. Sullo sfondo di lotte sanguinarie tra casate avverse, nella Scozia di fine seicento, la protagonista aspirerebbe infatti all’amore per il suo Edgardo, ma un fratello autoritario e crudele la costringe ad andare sposa a un altro per stringere un’opportunistica alleanza. Ricorda qualcosa al pubblico di oggi?

Nello spettacolo rappresentato al Teatro Galli di Rimini, il regista Stefano Vizioli – uno che ancora crede che la simbiosi tra musica e testo sia sufficiente a parlare anche agli ascoltatori di oggi – non ha ceduto alla facile tentazione di attualizzare la vicenda o, peggio, riscriverla. L’unica libertà che si prende è quella di evocare visivamente un ottocento atemporale, trasferendo così l’azione nel secolo in cui Lucia è nata (1835). La scena, claustrofobica, presa dai bozzetti dell’artista americano Alan Moyer – con lapidi cimiteriali che mutano prospettiva solo in funzione delle luci, firmate da Nevio Cavina – rappresenta una sorta di memento di come sarà l’epilogo della vicenda.

Il soprano Gilda Fiume - Ph Rolando Paolo Guerzoni
Il soprano Gilda Fiume – Ph Rolando Paolo Guerzoni

Protagonista assoluta dunque la musica, tanto più che la compagnia di canto, ben assortita e affiatata, aveva tutte le carte in regola. A cominciare dalla protagonista: il soprano Gilda Fiume, in un ruolo per lei ben collaudato. Prima, si è trovata a completo agio con gli accenti di tenero lirismo della cavatina Regnava nel silenzio, così come nel duetto Verranno a te sull’aure, grazie alla varietà di colori e a un’emissione sempre morbida (possiede la rara capacità d’imprimere sfumature dinamiche anche ai pianissimi); poi, ha saputo trasmettere lo smarrimento che culmina nella scena della pazzia, dove – senza alcuna leziosità da usignolo meccanico – ha sfoderato notevole sicurezza e facilità in acuto, imprimendo al personaggio grande intensità drammatica. Accanto a lei il tenore Giorgio Berrugi ha disegnato un Edgardo solido e sfaccettato psicologicamente, passionale e impetuoso. Ernesto Petti è baritono di voce salda, all’inizio tetragono nel ruolo del crudele fratello, poi in grado di virare verso un fraseggio sempre più articolato. Voce scura e profonda, il basso ucraino Viktor Shevchenko ha costruito un Raimondo freddo, quasi indifferente alle sorti di Lucia. Lo sfortunato sposo Arturo era Giuseppe Infantino, sempre più sicuro dopo qualche affanno iniziale; corretta, nonostante una certa asprezza vocale, Shay Bloch nei panni della damigella Lisa. Infine, Cristiano Olivieri è riuscito a dare apprezzabile rilievo alla figura periferica di Normanno. Meno appiombato è apparso invece il Coro Lirico di Modena, preparato da Stefano Colò.

A guidare la Filarmonica dell’Opera Italiana “Bruno Bartoletti”, non sempre impeccabile soprattutto nel preludio iniziale, Alessandro D’Agostino: a lui spetta il merito della riapertura dei tagli, che purtroppo tanti direttori si sono sentiti autorizzati a compiere su quest’opera, snaturandola. Fin da subito, infatti, gli stravolgimenti della prassi esecutiva sono diventati una consuetudine per Lucia di Lammermoor, a cominciare proprio dalla scena più famosa: quella della pazzia, dove la cadenza del flauto è del tutto spuria. Donizetti l’aveva invece concepita per glassarmonica.

Giulia Vannoni