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Tutti “accecati” da Wall Street

Bolla immobiliare e mutui “subprime”. Due fattori che hanno portato alla crisi attuale. Ma secondo l’economista riminese Stefano Zamagni, ordinario all’Università di Bologna, la burrasca si sarebbe comunque manifestata, sia pure in altre forme, anche con perturbazioni diverse da quella dei mutui subprime. Perché? In questa pagina l’esperto illustra a il Ponte il suo pensiero e parteda una metafora.
“Quando la tempesta abbatte la casa, la causa principale è la debolezza strutturale dell’edificio, pur essendo vero che senza quella perturbazione perfino la casa costruita sulla sabbia resterebbe in piedi…”.
Vorrebbe dire che alle origini della crisi diffusasi dagli Stati Uniti nel resto del mondo, ci sarebbe quindi una debolezza di fondo del sistema economico mondiale che ci ha reso tutti più vulnerabili?
“Esatto. Non si tratta né di una crisi congiunturale né di una crisi regionale. Essa è il punto di arrivo, inevitabile, di un processo che da oltre trent’anni ha modificato alla radice il modo di essere e di funzionare della finanza. Da quando ha iniziato a prendere forma quel fenomeno epocale che chiamiamo globalizzazione, la finanza ha avuto un ruolo sempre più forte sul nostro sistema di valori”.

La “bolla” mentale
La “bolla immobiliare” ha avuto una gran parte di responsabilità…

“Sì, ma una bolla speculativa dalle proporzioni di quella che oggi conosciamo, mai si sarebbe potuta realizzare senza quella ‘bolla mentale’ che ha fatto credere a tanti che fosse possibile ridurre il rischio a zero, qualora si fosse riusciti a spalmarlo tra un numero sufficientemente elevato di operatori. Il rischio, se c’è, può essere spostato o ridotto, mai annullato. Tale senso di onnipotenza, foraggiato per parecchi anni dall’euforia finanziaria, si è impadronito degli habitus mentali non solo dei trader e degli istituti della finanza, ma anche delle autorità politiche, dei centri mediatici, di non pochi ambienti universitari e di ricerca. È stata dimenticata, per dirla con Platone, l’intelligenza che sta in guardia”.

In che senso?
“Partiamo dagli Stati Uniti dove la proprietà di case è passata dal 44% degli anni Quaranta del secolo scorso a circa il 66% degli anni Sessanta. Fino al 1969, Fannie Mae era un’agenzia governativa, la cui funzione era per un verso quella di comprare mutui dalle banche e dagli altri gestori di risparmi per consentire loro un flusso costante nella erogazione dei mutui e, per l’altro verso, quella di fissare gli standard di riferimento. Al tempo stesso, Fannie Mae finanziava le sue operazioni vendendo sul mercato finanziario obbligazioni.
La situazione inizia a mutare alla fine degli anni ’70, quando operatori privati di Wall Street, nel tentativo di emulare Fannie, impacchettano mutui convertibili in obbligazioni, creando prodotti sempre più convenienti perché più rischiosi. Di fronte a tale novità, le autorità americane non solo non sono intervenute per cercare almeno di garantire il rispetto degli standard, ma quel che è peggio hanno lasciato alle agenzie private il compito di decidere loro il grado di sicurezza dei nuovi strumenti finanziari. Alla vigilia del suo fallimento, la Lehman Brothers era considerata più che sicura!
Gli USA si sono lasciati alle spalle un’era di spensieratezza finanziaria: acquisti a credito senza copertura; mutui concessi a tutti sull’intero valore dell’immobile; carte di credito distribuite a chiunque; ricorso a strumenti finanziari ipersofisticati. Fino ad un certo punto, il gioco ha assicurato profitti – meglio sarebbe dire rendite – astronomici. Ma dal 2005, i rialzi dei tassi di interesse hanno reso più gravose le rate dei mutui subprime il che ha accresciuto il rischio di insolvenza delle famiglie più esposte, più vulnerabili.
La crisi in atto non troverà definitiva soluzione fino a quando la politica e il corpo sociale non riprenderanno in mano il governo dell’attività finanziaria, indirizzandola al suo fine naturale che è quello di porsi al servizio degli investimenti, della produzione, degli scambi”.

La dittatura di Wall Street
Lei ha parlato di cause “più profonde” delle perturbazioni finanziarie recenti. Quali?

“La prima è il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi avvenuto nell’ultimo trentennio. Dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, la creazione di nuovi strumenti di credito ha via via esposto l’economia reale ai capricci della finanza. Le pressioni sulle imprese derivanti dalle borse si sono trasferite in pressioni ancora maggiori sui consumatori per convincerli, mediante l’impiego di sofisticate tecniche di marketing, a comprare sempre di più pur in assenza di potere d’acquisto.
Se la finanziarizzazione viene spinta in avanti a sufficienza – si è fatto credere – non v’è bisogno che le famiglie, per provvedere alle proprie necessità, attingano in misura prevalente ai propri salari: dedicandosi alla speculazione, esse possono ottenere per altra via il reddito necessario per conseguire livelli crescenti di consumo. Anzi, se e nella misura in cui riduzioni salariali favoriscono la redditività delle imprese quotate in borsa, può accadere che le famiglie compensino la riduzione dei redditi da lavoro con aumenti dei redditi di borsa. Non dobbiamo allora sorprenderci se nell’ultimo quarto di secolo, per un verso, è aumentata, fino a raggiungere livelli mai visti in precedenza, la volatilità dei rapporti di lavoro (la cosiddetta precarietà, che ben poco ha a che vedere con la flessibilità) e per l’altro verso è andata aumentando, in tutto l’Occidente avanzato, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Quando i redditi provengono dal lavoro lo scarto tra i più e i meno pagati non potrà mai superare una certa soglia; non così quando essi provengono da attività speculative oppure quando sono legate agli andamenti borsistici”.

La complicità dei teorici
Come ha potuto il processo descritto raggiungere un tale livello di pervasività su scala mondiale?

“Senza il supporto scientifico di una certa scuola di pensiero economico le cose non sarebbero andate così. Molti hanno affermato che i comportamenti di banchieri e trader – protagonisti della speculazione dell’ultimo ventennio – potevano assicurare un’efficiente allocazione delle risorse finanziarie. Altrettanto decisiva, in negativo, è stata l’idea dell’impresa come merce che può essere comprata e venduta sul mercato al pari di ogni altra merce: nulla più di un fascio di contratti che, a seconda delle convenienze del momento, vengono siglati da una pluralità di soggetti, ognuno alla ricerca del massimo guadagno individuale. L’obiettivo del management è diventato così quello di massimizzare il valore per l’azionista-proprietario. Infine, citando una terza precisa responsabilità degli economisti in questa vicenda, l’idea portata avanti addirittura da due Premi Nobel, Merton e Scholes, secondo cui, sotto certe condizioni, è possibile eliminare il rischio degli investimenti. Teorie erronee”.

Tutti “sudditi”del capitalismo?
Perché la realtà ha allora “disobbedito” alla teoria?

“Con la crescente privatizzazione del pubblico, le imprese dell’economia capitalistica vanno assumendo sempre più il controllo del comportamento degli individui, sottraendolo allo Stato o ad altre agenzie, prima fra tutte la famiglia. Nozioni come libertà di scelta, tolleranza, eguaglianza di fronte alla legge, partecipazione ed altre simili, coniate e diffuse all’epoca dell’Umanesimo civile e rafforzate poi al tempo dell’Illuminismo, come antidoto al potere assoluto (o quasi) del sovrano, vengono fatte proprie, opportunamente ricalibrate, dalle imprese capitalistiche per trasformare gli individui in acquirenti di quei beni e servizi che esse stesse producono. Alla luce di questo, riusciamo a comprendere perché la crisi finanziaria non può dirsi un evento né inatteso né inspiegabile. Senza nulla togliere agli indispensabili interventi in chiave regolatoria e alle necessarie nuove forme di controllo, non riusciremo ad impedire l’insorgere in futuro di episodi analoghi se non si aggredisce il male alla radice, vale a dire se non si interviene sulla matrice culturale che ha sorretto finora il sistema”.

Persone, non risorse
Cosa ci può insegnare questa crisi?

“La crisi, che letteralmente significa transizione e in quanto tale è destinata a concludersi (forse nei prossimi due o tre anni), lascia in eredità un messaggio e un monito importanti. Alle banche commerciali e di investimento e alle varie istituzioni finanziarie l’invito è di comprendere due cose: che l’etica della virtù è ‘superiore’ all’etica utilitaristica se il fine che si intende perseguire è il progresso morale e materiale della società; che è giunto il tempo di porre al centro la persona umana e non più la risorsa umana.
Alle autorità di governo questa crisi dice pure due cose fondamentali: primo, che la critica allo Stato interventista in nessun modo può far dimenticare il ruolo centrale dello Stato regolatore; secondo, che le autorità pubbliche devono favorire un mercato finanziario pluralista, in cui possano operare in condizioni di oggettiva parità soggetti diversi. Penso alle banche del territorio, alle banche di credito cooperativo, alle banche etiche. Dalla crisi i fondi etici sono usciti molto bene: né fughe di clienti, né crolli nei rendimenti si sono registrati. Il mercato europeo ha raggiunto i 2.700 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 102% in due anni. Se negli ultimi decenni le autorità di governo avessero tolto i tanti lacci che ancora gravano sulla finanza alternativa, la crisi odierna non avrebbe avuto questa potenza devastatrice”.

E alla società civile, quale monito può arrivare?
“Questa crisi ha danneggiato quella specifica componente del capitale sociale che è la fiducia generalizzata, a largo raggio. Un’economia di mercato, per funzionare, può fare a meno di tantissime cose, ma non della fiducia, perché quella di mercato è un’economia contrattuale. Perfino le banche che hanno liquidità in eccesso hanno cessato di concedere prestiti ad altre banche, preferendo acquistare titoli di Stato certamente meno remunerativi.
È alla società civile che spetta il compito di riannodare le ‘corde’ tra tutti coloro che operano nel mercato e che questa crisi ha maldestramente spezzato”.

a cura di A. Leardini