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Tra utopie rivoluzionarie e restaurazione

Die Feen, al centro il soprano Emma McNairy (Lora) - PH Christina Iberl

Una originale ed efficace rilettura delle Fate di Wagner è andata in scena allo Stattstheater di Meiningen, in Turingia

MEININGEN, 8  febbraio 2024 – Il titolo Die Feen (La fate) sembra evocare un mondo fantastico e forse poco problematico. Tuttavia, nella rivisitazione della prima opera di Wagner proposta allo Staatstheater di Meiningen, il protagonista diventa una figura tormentata, attratta dall’utopia rivoluzionaria ma spinta dagli eventi verso la restaurazione. Scritta nel 1833 da un Wagner appena ventenne, e rappresentata solo postuma, questa ‘Zauberoper’ (opera fantastica, genere fortunatissimo in quei decenni) ispirata alla Donna serpente di Gozzi è andata in scena nell’allestimento della regista Yona Kim, che – in collaborazione con la drammaturga Julia Terwald – realizza una lettura radicata nelle vicende storico-politiche della Germania ottocentesca. In scena ricorre spesso un’icona del romanticismo tedesco, il Viandante sul mare di nebbia, celeberrimo dipinto di Friedrich Caspar David declinato in vari modi nell’elegante scatola scenica di Jan Freese: ora come quadro in sé, ora in forma di proiezione a tutto campo, ora leggibile nella postura di Arindal, il protagonista.

Tenendo fede alla matrice di favola, i personaggi assumono così un forte valore simbolico. Rinchiuso in un ospedale psichiatrico, Arindal – re che abbandona il suo regno umano per amore di una fata – viene qui trattato come un pazzo (in anticipo su Parsifal, il “puro folle”?) e tenuto sotto la sorveglianza di zelanti infermiere e medici. Il tentativo è d’indirizzarlo verso il più conformistico Biedermeier, perfettamente evocato dai costumi di Frank Schönwald, allontanandolo da quei fermenti rivoluzionari che lo stesso Wagner, in prima linea sulle barricate del ’48, avrebbe a sua volta conosciuto davvero; mentre la fata Ada, che deve affrontare l’ostracismo delle altre creature fantastiche per essersi innamorata di un essere mortale, diventa un’ideale materializzazione dell’utopia romantica: nell’ultima scena si presenterà con un vestito bluette e un mazzolino dello stesso colore in mano, inequivocabile allusione al fiore azzurro – quintessenza di amore assoluto ed elevazione spirituale – di cui narra Novalis nell’Enrico di Ofterdingen. Attorno ai due protagonisti si respira invece solo realpolitik, incarnata soprattutto da Lora, sorella di Arindal, che si appresta con ferrea determinazione a esercitare il potere in luogo del fratello latitante. Tra licenze d’impaginazione (alcuni personaggi vengono soppressi, altri fusi tra loro) e colpi di forbice (viene tagliata circa mezzora di musica), lo spettacolo si prende qualche libertà pure sulla partitura, come quando fa cantare il protagonista accompagnandosi al pianoforte, a memento della febbre romantica evocata da questo strumento, ma sempre con coerenza e rigore. Mentre l’epilogo, sottratto al lieto fine, conferma l’inconciliabilità tra i due mondi: Arindal viene rinchiuso definitivamente dietro le sbarre, Ada rimane cristallizzata nelle originarie sembianze di cerva, sancendo l’impossibilità di un transito verso la natura umana.

Riletture così impegnative hanno bisogno di un adeguato corrispettivo musicale. Che la Meininger Hofkapelle sia un magnifico ensemble è risaputo e – sebbene nella recita in questione si trovasse sul podio non il direttore stabile, ma il meno rodato Chin-Chao Lin – l’esito è apparso all’altezza della fama: per la meravigliosa compattezza del suono, l’elasticità nei viraggi di temperatura drammatica, l’ottima flessibilità dinamica. Prezioso pure il contributo del coro e di tutti gli interpreti, molti dei quali appartenenti alla compagnia stabile del teatro. A cominciare dalla protagonista femminile, il soprano Lena Kutzner, che –  nonostante un’emissione apparsa talvolta un po’ tesa – ha affrontato l’impervia scrittura di Ada con sicurezza e determinazione. Meno a suo agio con l’espansione richiesta al canto wagneriano il tenore danese David Danholt, tuttavia di grande efficacia nell’esprimere i tormenti di Arinald. Carismatica in scena e dal canto sempre scorrevole il secondo soprano, Emma McNairy: una Lora decisionista che utilizza ogni mezzo per raggiungere il potere, comprese le arti di seduzione femminile.
Due i baritoni: Shin Taniguchi ha ben interpretato Morald, amante di Lora, mentre Johannes Schwarz caratterizzava Gernot, personaggio più colorito di estrazione popolare. Drolla, sua fidanzata, per un’indisposizione della titolare è stata sdoppiata senza causare danni allo spettacolo tra Paula Rummel (che cantava a leggio) e Freya Gölitz (che agiva in scena). Le altre due fate Zemina e Farzana – raffigurate come infermiere piuttosto risolute – erano Deniz Yetim, soprano sempre sonoro anche nei momenti collettivi, e l’efficace mezzosoprano Marianne Schechtel. Nei ruoli minori da citare il solido basso Selcuk Hakan Tiraşoǧlu, un re delle fate trasformato in medico della clinica psichiatrica in abito da clown: come oggi spesso si fa negli ospedali, soprattutto per allietare la degenza dei piccoli pazienti. Ma – in questo caso – per sedare i folli, o presunti tali.

Giulia  Vannoni