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Storia di ordinaria povertà

Via Madonna della Scala, Rimini. Nove in punto di mattina alla Caritas. Sono qui per un’intervista a Maria Carla Rossi, sull’emergenza abitativa. Un’intervista che non riuscirò a fare. Rivelo subito il finale, lo spoilero, come si dice nel gergo anglo-informatico che si rifà alle persone che ti rovinano il finale di un film anticipandoti quello che succede.
Non intervisto Maria Carla Rossi perché sono tante le persone che devono parlare con lei. C’è un via vai continuo qui nella sala d’attesa della Caritas. Mi sento come al pronto soccorso. Il mio ultimo ricordo risale ad un tamponamento di quattro anni fa. Le mezzore passano una dietro l’altra, mentre attendi il tuo turno seduto su una sedia e le persone passano avanti e indietro, tutte determinate, tutte che sanno dove andare, come muoversi e con chi parlare. Tutte tranne te, me in questo caso. Nuovo del luogo e imbambolato. E contemporaneamente sei infastidito e sollevato.

Sento parlare nel casotto. C’è un uomo, che chiamano Miha, ha la barba rossa, ben curata, bella e un orecchio bendato.
“Perché sei qui oggi? Dovevi andare in ospedale ieri. Venire qui alle 8 di mattina, farti la doccia e poi andare in ospedale. L’appuntamento era per ieri. Mi capisci quando parlo?”
No.
Maria Carla si rivolge all’interprete che traduce le domande. Ieri pioveva, non sono riuscito. Miha viene mandato a fare la doccia, poi andrà in ospedale, oggi. Sperando che non ci siano problemi. L’appuntamento era per ieri. Maria Carla si allontana, mi vede. Un veloce scambio di battute ricorda il nostro appuntamento.

Una ragazza seduta di fronte a me coglie qualche parola e attacca discorso.
“Sei giornalista? Allora forse puoi aiutarmi. Io non so più cosa fare”.
Giornalista. Parola magica. Un giornalista ha poteri magici? Burroughs diceva che i giornalisti sono come sciamani, le uniche persone che hanno la possibilità di far accadere le cose semplicemente scrivendole. Se io scrivo una cosa, chi legge è convinto che sia vera, la crede, per cui è. Ma ho davvero questo potere riguardo alle parole della ragazza?
“Sono albanese, e anche mio marito è albanese. Da quando abbiamo perso il lavoro non abbiamo più potuto rinnovare il permesso di soggiorno. Ora mia figlia ha 14 anni, il prossimo anno dovrebbe cominciare le superiori, vorrebbe fare lingue, ma senza permesso di soggiorno non me la fanno iscrivere. Perché? Lei è nata qui! Cos’ha fatto?”.

No, non ho poteri. Probabilmente non li avrei neanche se fossi l’editorialista del Corriere della Sera, figuriamoci da RiminiSocial.
Niente.“È un’ingiustizia”. È tutto quello che riesco a dire. Un po’ parliamo, le spiego che è un grosso problema dell’Italia. Che sua figlia avrebbe diritto a tutti i diritti, ma purtroppo la politica è molto indietro.
“Io perdo i capelli per lo stress. Non so più cosa fare”.
Ha una bellezza sciupata. Un ricordo di sensualità ormai slavato. Mi guarda. Poi sposta gli occhi altrove. Forse si aspettava altro da me che qualche parola. Una soluzione, un aiuto. Io mi guardo le mani, un po’ imbarazzato, nervoso. È frustrante non potere fare di più. Mi ha sempre dato fastidio la sensazione di stare bene di fronte a persone che stavano male. Come se glielo ostentassi in faccia. Mio figlio non avrà di questi problemi. Eppure sua figlia non ha certo colpe. Ogni tanto la ragazza mi parla, ogni tanto si perde nei suoi pensieri. Forse ha ancora qualche speranza su di me. Io rispondo, ma niente di più. Alla rabbia si alterna l’umiliazione di essere lì a chiedere aiuto.

Nel casotto parlano ancora di Miha, che ora è a fare la doccia. Come ha fatto a bruciarsi l’orecchio? Facevano delle cose con l’alcool. Un gioco? Erano ubriachi?
Nella sala adiacente, che vedo solo in parte perché un’anta della porta è chiusa, è seduta una donna silenziosa, con un foulard in testa, russa o ucraina. Non dice nulla, mani in grembo, vestiti pesanti e scarpe da ginnastica. Guarda davanti a sé, in attesa. Quando passa un prete chiede: “Ha venuto suora?” e poi torna nel suo mutismo.
Vicino a lei è seduto un uomo che ricorda lo zio che abita lontano. Quello vestito male che si infila sempre nelle foto, mangia piatti e piatti pieni di pasta e ti mette in imbarazzo di fronte agli amici e agli altri parenti, ma c’è e gli si vuole bene lo stesso.
Anche lui aspetta.
Poi ci sono due signore anziane, entrambe nascoste alla mia vista. Parlano di malattie agli occhi:“Io ho gli occhi che lacrimano, lei? Altro che lacrimare, io sono stata operata. Ah sì? Eh sì, la cataratta”.
Attendono il medico, il farmacista, per avere le loro medicine. Ogni tanto si affaccia anche un uomo di mezza età, forse tossico. Ha gli occhi spiritati e parla a bassa voce.

“Ha venuto suora?” Chiede ancora l’anziana russa. Sembra uscita da un romanzo di Dostoevskij, iconica. Alla fine ottiene una risposta. “Suor Elsa non c’è. È a Roma. Torna lunedì”.
Ci rimane visibilmente male. È una bomba per tutti quelli che sono lì.
“Come non c’è?”
“No. È a Roma. Però potete parlare con le altre”
.
La russa allarga le braccia e abbozza un sorriso. Come a dire: “Eh a me?”.
Una delle due signore della cataratta ci rimane molto male per questa scoperta che arriva alle 10 di mattina, dopo un’ora di attesa. “Bastardi di merda”, commenta a voce non troppo bassa.
Intanto la ragazza albanese finalmente viene chiamata da Maria Carla, per parlare del suo problema. “Chi altro deve parlare col direttore, dopo il giornalista?”, chiede un uomo della Caritas.
Il tipo che sembra uno zio si alza. “Direttore?”
La parola accende speranze. Direttore, giornalista, persone capaci di risolvere problemi. “Io, io devo parlare con Maria Carla”.
“Ha un appuntamento?”
“No. Devo parlare con Maria Carla”.
“Ma riceve solo su appuntamento”.

Per tutta risposta lo zio si siede. Lui ora aspetta di parlare con Maria Carla, perché è una direttrice, perché può risolvere problemi. Una delle due signore della cataratta si alza e vede nel corridoio il dottore.
Allora è arrivato, possiamo chiedere le medicine
Anche l’altra si alza. Ci è rimasta male che il dottore sia entrato da un’altra parte e sia già al suo posto.
“Ma non ci avvertite? – dice – noi siamo qui che aspettiamo e quello è entrato da un’altra parte! Ma che…” e ripete la stessa parolaccia di prima.
L’altra signora va dal dottore, la signora delle parolacce, invece, ci tiene a precisare a tutte le altre che lei è la seconda in attesa. Che dopo tocca a lei. Anzi, qualche minuto dopo si lamenta che la prima signora è ancora dentro, che sta ancora a parlare, che quanto ci mette, e si avvia verso l’ufficio.

Io sono qui perso nelle mie elucubrazioni. Che ancora mi chiedo se ho fatto bene a rifiutare una brioche che mi hanno offerto, anche se avevo fame, perché mi sembrava di prendere qualcosa di non dovuto. E penso che se dovessi scivolare giù dalla ruota della fortuna e trovarmi in situazioni del genere, sarei troppo poco intraprendente, e probabilmente, se non scattasse qualcosa che ora non c’è, morirei di fame in poco tempo.
Una lezione che mi dà anche un altro signore, appena entrato – ormai sono le 10 e un quarto – e che chiama tutti Capo, Dottore, Padre, nella speranza di richiamare un po’ di attenzione.
“Ma si può avere sia il buono pasto che il pacco viveri? Io non dico che voglio più degli altri, ma se lo hanno gli altri lo voglio anche io. Alcuni mi hanno detto di no. Ma perché?”.
Bisogna prendere e mettere da parte. Prendere, poi, quello che serve.
“Io non voglio pasta o sughi – dice – non ho i fornelli per cucinare. Magari scatolette di tonno, biscotti, formaggio, cose così”. “Come non hai i fornelli?”, penso. Io ho cambiato tante case, belle e brutte. Ma non ho mai pensato ad una casa senza fornelli, mi è sempre sembrato normale. Il minimo. Ma il minimo è una soglia. E sotto c’è un mondo.

Muoversi, sempre.
La signora “sputa parolacce” sta tornando. È nel corridoio, sguardo basso. È stata dentro 20 minuti buoni, ma si capisce che è andata male. Non ha ottenuto quello che voleva.
“Oggi non si cava un ragno da un buco”, dice.
Va verso la porta ed esce. Nella sua mente si ripete un unico mantra.
Ed intanto entrano altre persone. La vecchia di Dostoevskij è ancora lì. Poi arriva una madre con due bimbi, un’altra donna, un uomo taciturno. Chiedono, camminano, passano. Qualcuno cerca le docce, altri i buoni pasto, altri ancora non si sa.

Passano anche un sacco di suore. Suor Elsa no. Qualcuno la chiede ancora ma non c’è. Passano due, tre sorelle, tutte uguali, basse, veloci, determinate, si somigliano anche. Sembra che le facciano con lo stampino. Io, delle mie scuole elementari, ricordo suore più alte, piazzate. Forse per domare classi di 30 bambini mettono il modello di suora superiore. Quello più resistente, a 5 porte. Ma anche qui c’è da fare un bel po’.
Miha torna, sbarbato e pronto per l’ospedale. Secondo me stava meglio con la barba.
Arriva una ragazza, giovane, un po’ volgare, deve parlare con Maria Carla, non ha appuntamento e non può aspettare. Passa ed entra. Lo zio si arrabbia un po’.
“Noi cosa aspettiamo a fare?”.
Noi aspettiamo un altro giorno, e poi quello dopo, come nella fortezza a guardia del deserto dei tartari, come se le cose potessero cambiare da un giorno all’altro. Come se arrivasse prima all’orizzonte poi sempre più vicino un direttore, un giornalista, qualcuno capace di muovere l’ingranaggio giusto per fare andare a scuola una ragazza italiana nata da genitori albanesi. Per ora no. Passano solo suore tutte uguali. Ed è già un miracolo. E la vecchina snocciola la parolaccia del giorno…

Stefano Rossini