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Sperimentazioni verdiane

Il soprano Nino Machaidze (Giovanna) - Ph Fabrizio Sansoni
Il soprano Nino Machaidze (Giovanna) - Ph Fabrizio Sansoni

Al Teatro dell’Opera di Roma uno dei titoli giovanili di Verdi, Giovanna d’Arcocon la bacchetta di Daniele Gatti per il ritorno alla normalità  

ROMA, 24 ottobre 2021 – Giovanna d’Arco non è mai rientrata fra i titoli verdiani di repertorio. Peccato, perché oltre ad accogliere molte suggestioni della grande stagione romantica (alle spalle del libretto c’è Schiller) in quest’opera giovanile Verdi sperimenta nuovi equilibri drammatici. Lasciando sullo sfondo gli aspetti corali e patriottici che gli avevano dettato Nabucco e I Lombardi, mantiene il sapore dell’affresco storico-religioso ma, soprattutto, si concentra sul terzetto protagonistico. Così facendo delinea personaggi con fisionomie più sfaccettate, come in seguito gli accadrà sempre più spesso. Tutto sta, però, che ne siano consapevoli direttore e cantanti: sempre pronti ad adagiarsi nella retorica quando si affronta il primo Verdi.

Il tenore Francesco Meli (Carlo VII) e il soprano Nino Machaidze (Giovanna) - Ph Fabrizio Sansoni
Il tenore Francesco Meli (Carlo VII) e il soprano Nino Machaidze (Giovanna) – Ph Fabrizio Sansoni

Daniele Gatti, sul podio del Teatro dell’Opera di Roma, ha dimostrato di esserne ben conscio: nella sua lettura prevalgono sonorità leggere e trasparenti, un fraseggiare morbido e articolato, una sensibilità sinfonico-paesaggistica di respiro beethoveniano.

Gli interpreti vocali hanno invece affrontato i rispettivi ruoli con intenti diversi. La georgiana Nino Machaidze ha cercato di andare oltre lo stereotipo della pulzella invasata, coniugando l’esaltazione mistico-guerriera ai tormenti di un personaggio combattuto tra le proprie pulsioni terrene: l’infatuazione per Carlo e l’affetto per il padre. È apparsa comunque più efficace nel trasmettere i furori sovrannaturali e gli slanci ardimentosi di Giovanna, anche per qualche limite nella dizione (non sempre intellegibile) e una certa carenza di ‘legato’. Dal canto suo, Francesco Meli ha fatto affidamento sulle proprie doti naturali, innanzi tutto la pregevole voce, senza scandagliare gli aspetti di un ruolo, Carlo VII di Francia, che non ha più nulla del monodimensionale tenore eroico-amoroso, ma si proietta verso quella tipologia di personaggio tormentato che tornerà nei Masnadieri, nella Miller, nel Don Carlo: anche queste, non a caso, opere che Verdi trasse da Schiller. Baritono non più giovane, capace di far dimenticare i limiti di un timbro ormai arido grazie al perfetto controllo dell’emissione (la voce è comunque sempre molto sonora), Roberto Frontali fa percepire meglio dei colleghi quel concetto di ‘parola scenica’ tanto auspicato da Verdi. Il suo Giacomo coniuga l’ottusità del padre possessivo allo sbigottimento per l’affetto ritrovato, la dignità dell’umile allo slancio di chi non ha nulla da perdere: e il personaggio, che a una lettura più piatta potrebbe risultare odioso o assurdo, emerge così in tutte le sue potenzialità sommerse. Grazie a una voce scura e potente Dmitry Beloselskij – un lusso per il piccolo ruolo di Talbot – trasforma la fuggevole figura del comandante degli inglesi in una raffigurazione d’insospettabile icasticità. Il coro, preparato come di consueto da Roberto Gabbiani, ha invece evidenziato qualche incertezza nella sincronizzazione, attribuibile forse al distanziamento – nel rispetto delle regole di sicurezza sanitaria – tra i vari componenti.

Chi non ha mostrato troppa consapevolezza per le caratteristiche di Giovanna d’Arco è apparso comunque Davide Livermore, che firma la regia di uno spettacolo generico nelle intenzioni e costruito su effettistiche suggestioni visive: una sfera rotante dove vengono proiettate immagini alquanto esornative (come sempre le scene sono dello studio milanese Giò Forma), di cui si stenta a cogliere la dialettica con il libretto. Sul palcoscenico agisce invece un ‘doppio’ della protagonista – che non aggiunge nulla a quanto delineato dalla musica – e orbitano figure demoniache coreografate, senza troppo costrutto, dallo stesso regista.

Accoglienza calorosissima soprattutto per il direttore (a fine anno si concluderà per Gatti l’incarico da direttore principale al Teatro dell’Opera: un rapporto che si è rivelato molto felice), da parte di un pubblico che riempiva quasi completamente la sala, nella ritrovata normalità che tutti attendevano da tempo.

Giulia Vannoni