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Sigismondo, un signore senza politica

Carlo Malatesta non aveva figli, ma grazie all’intervento del papa Martino V riuscì a far legittimare i tre figli del fratello e a costituirli eredi. Galeotto Roberto morì (si è visto) a soli ventidue anni in fama di santità, Malatesta Novello si stabilì a Cesena e Sigismondo Pandolfo tenne il vicariato apostolico di Rimini e contado.
Fin oltre la metà del Quattrocento Pandolfo fu impegnato militarmente in varie parti della penisola, ora a servizio della Santa Sede, ora del regno di Napoli, di Milano, Siena, Venezia, Firenze, vedendo accrescere il suo prestigio di condottiero presso le corti.

La qualificata corte
di Pandolfo
La sua corte era aperta ai grandi letterati del tempo, come Valturio che nel trattato sull’arte militare utilizzava a piene mani le opere degli antichi, o Basinio Parmense che scrive un Astronomicon attingendo dal latino Manilio o Gemisto Pletone. In Italia dal 1438 al 1440 ad accompagnare Giovanni VIII Paleologo al Concilio dei Firenze/Ferrara (dove sembra per un momento potersi ricomporre la frattura con la Chiesa d’oriente) Pletone diffonde tra un pubblico di intellettuali che poco conoscevano la lingua greca la filosofia di Platone, non più secondo la mediazione di Agostino, ma secondo l’interpretazione della tradizione ellenica; a Rimini entra in amicizia con Sigismondo che nel 1464,in occasione di una “crociata” in Morea al soldo di Venezia, ne riporterà in Italia il corpo per dargli sepoltura in una delle arche del Tempio Malatestiano.
Queste suggestioni provenienti dal passato rendevano Sigismondo incline a cercare come modelli Achille o Annibale, piuttosto che i santi e contribuirono a modificare i suoi rapporti con il clero secolare e l’episcopio.
Quando infatti nel 1437 volle ampliare la piccola struttura del Gattolo e diede inizio alla costruzione di Castel Sismondo non esitò a distruggere il monastero di Santa Caterina, il battistero di San Giovanni e parte dell’episcopio.

Un tempio a lode di
Dio e gloria del Principe
Dieci anni dopo inizia la trasformazione della chiesa di San Francesco, come ex voto “per gli scampati pericoli e per le vittorie riportate nella guerra italica” (come recita un’epigrafe in greco).
Scopo non secondario: celebrare e conservare nel tempo la fama del signore e costituire un monumento sepolcrale per lui e per la sua famiglia. Un tempio, dunque, a lode di Dio e a gloria del principe.
La struttura gotica dell’interno venne decorata da Agostino di Duccio, Matteo de’ Pasti, Piero della Francesca secondo il gusto classicheggiante ed estetizzante di Sigismondo e della sua corte: vi si mescolano simboli classici (Diana, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno sono evocati per rappresentare i pianeti; le Muse, ispiratrici delle arti, per rappresentare il lavoro dell’uomo) e festoni, ghirlande di fiori, targhe araldiche, stoffe preziose in cui si vuole rispecchiare il fasto policromo della corte.
L’esterno, affidato a Leon Battista Alberti, “più che l’ambizione del committente proclama la centralità dell’uomo nella storia, la sua forza intellettuale e la sua capacità di assumere il passato per fare più grande e armonioso il presente e aprirlo al futuro”.

Condottiero,
non diplomatico
Castello e Tempio avrebbero dovuto essere i due poli di una città ideale, secondo il sogno di tanti principi rinascimentali. Ma le cose andarono diversamente…
Sul piano diplomatico e politico, infatti, Sigismondo non seppe emulare le doti dello zio Carlo e finì per trovarsi emarginato e isolato: per volontà degli Aragonesi, sconfitti da lui a Firenze, fu escluso dalla pace di Lodi (che nel 1454 dà inizio ad alcuni decenni di equilibrio tra gli stati emergenti del mondo italico) e dalla costituzione della “Santissima alleanza” (1455) contro i Turchi (con la conquista di Costantinopoli avevano l’anno prima messo fine all’Impero romano d’oriente); la cessazione dei conflitti all’interno della penisola segnò la fine dei lauti guadagni che derivavano dalla guerra e l’inizio di un momento delicato per l’erario malatestiano; ribellatosi al papa Pio II che gli imponeva di rifondere una ingente somma ad Alfonso d’Aragona e depositare come cauzione nelle mani di Federico da Montefeltro buona parte delle terre del vicariato (1460) venne scomunicato, processato e messo al rogo in effige; dopo una pesante sconfitta militare nel 1463, grazie alla mediazione della Repubblica di Venezia, poté rientrare in possesso della sola Rimini e di una piccolissima parte del suo territorio, dopo aver fatto solenne abiura davanti al rappresentante papale in Santa Colomba.
(11 – continua)

Cinzia Montevecchi