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Si chiama piada o piadina?

Piada o piadina? Questo è il dilemma affrontato dallo scrittore riminese, e storico del cibo, Piero Meldini nel celebrare il “pane” della Romagna. Nell’ambito della prima giornata di Al Mèni si è aperta nello spazio slow food del circo, allestito nella rotonda di piazzale Fellini, una piacevole e interessante parentesi dedicata alla piada, cibo romagnolo per eccellenza.

Le origini. Meldini parte dal termine piadina per intraprendere un percorso a ritroso nel tempo e scoprirne le tracce storiche.
“Innanzitutto non ci sono voci dialettali per questo termine, come invece succede per piada che, a seconda della zona, diventa pieda (nel riminese), pida in campagna o pièdal cesenate in su. Quasi tutte le citazioni dei documenti antichi parlano espressamente di piada e non di piadina”.
Nel 1622, però, un cronista canonico di Santarcangelo, Giacomo Antonio Pedroni, narrando delle vicende dell’epoca e della terribile carestia che imperversava al tempo, annota che, a causa del rincaro degli alimenti, molte persone facevano delle piadine di sarmenti e fave. Si tratterebbe quindi dei rami della vite e di fave macinate. La prima volta che la parola “piada” compare in un testo (anche se non si tratta del nostro alimento romagnolo), è in un documento importante del 1371 scritto dal cardinale Anglico de Grimoard, fratello di Papa Urbano V, dopo aver visitato tutta la Romagna. In un tratto del documento parla di tributi annui alla Chiesa offerti anche sotto forma di generi alimentari e tra questi compaiono “due piade”. Si tratterebbe presumibilmente di due larghe focacce lievitate con strutto simili alla piè ravennate, l’attuale spianata. Nel 1572 si ha un’altra citazione simile alla nostra piadina data da un medico naturalista, nativo di Piobbico ma trasferitosi a Rimini, di nome Costanzo Felice.
“Nella corrispondenza con Ulisse Aldrovandi scrive di alcune piante commestibili tra cui appunto il grano. Cita la placenta (che non c’è più), la crescia e la piada, che definisce come pessimo cibo che a molti non piace. Si trattava di un semplice surrogato del pane a cui si ricorreva tra un’infornata e l’altra. All’epoca le case coloniche cuocevano il pane al forno una volta alla settimana e non lo si consumava del tutto fresco, per timore di mangiarne troppo”, chiarisce Meldini. La nostra piadina, così com’è, compare dagli anni Venti dell’Ottocento nei testi, ma Giovanni Pascoli, la definì “pane rude di Roma” perché pensò di scorgerla addirittura nel settimo libro dell’Eneide. C’è un episodio significativo: i Troiani sbarcano nella Colchide, regno delle Arpie, la cui regina lancia loro una maledizione dicendo che avrebbero concluso il viaggio solo quando la fame sarebbe stata tale da consumare le loro mense. Finito effettivamente il viaggio i Troiani sbarcano nel Lazio, vanno a caccia e preparano le carni su vassoi commestibili che in realtà assomigliano tanto a delle piade. Il figlio di Enea osserva che si stanno mangiando delle “tavole”, usando la parola “mensa” che significa sia tavola sia il tipico piatto commestibile in uso nell’età repubblicana a Roma. Solitamente venivano date dai patrizi ai clientes come scarti dei pasti.

Le peculiarità della piadina. “Per i piatti della tradizione non esistono ricette univoche – fa giustamente notare l’esperto – passando da zona a zona, ma anche solo da casa a casa, ogni azdora aggiunge o toglie un ingrediente diverso e questo vale anche per la piadina romagnola”.
La cottura tradizionale deve essere rigorosamente eseguita su una teglia di ferro o un testo (dal latino testa, che significa coccio, perché quelli più antichi di Montetiffi erano in terracotta). Spostandosi verso l’appennino tosco-romagnolo si trovano poi anche le lastre di ardesia. Non deve essere una superficie antiaderente perché la piada deve leggermente attaccarsi nella cottura e avere tutte le sue peculiari bruciature, evitando però accuratamente le bolle che talvolta si vengono a creare con un coltello a punta tonda e girandola per un massimo di due volte. “Se in casa mia le donne avevano il fortunato dono di saper fare la piadina, a noi uomini ne era riservata al massimo la cottura”, ricorda sorridendo Meldini. Per quel che riguarda l’altezza della piada invece si parte da Riccione, dove è più bassa di tutte, fino a salire e arrivare al Cesenate e al Forlivese (storicamente la piadina non arrivava oltre Cesenatico e a Cervia o Ravenna se ne parla dagli anni Sessanta).

Gli ingredienti. La base è unica per tutti: farina, acqua, un pizzico di sale e tendenzialmente lo strutto, ma c’è poi chi usa l’olio d’oliva, l’acqua di cottura del cotechino o il latte del siero del formaggio. Come agenti lievitanti si parla di bicarbonato, nella Romagna meridionale, o di dose in quella centro-settentrionale.

Irene Gulminelli