Home Attualita “La mia prima volta in Africa è stata una gioiosa fatica”

“La mia prima volta in Africa è stata una gioiosa fatica”

È stata la sua prima missione umanitaria. Dieci giorni in un ospedale in Togo.
Quaranta interventi eseguiti. Senza sosta, senza interruzione. “Un’esperienza dura, ma magnifica dal punto di vista personale”. Il medico riminese Paola Emiliozzi, 52 anni, ha fatto parte dell’èquipe di “Aicpe Onlus” che si è recata all’ospedale “Saint Jean de Dieu” di Afagnan, in Togo, nell’ambito del progetto di chirurgia plastica umanitaria nei paesi in via di sviluppo. Con lei anche i chirurghi plastici Claudio Bernardi, romano, presidente di “Aicpe Onlus” e Carlo Carusi, 32enne di Celano.

Mamma di due ragazzi di 16 e 18 anni, la dottoressa Emiliozzi racconta la sua avventura.
“Pur essendo impegnata da anni con il volontariato non avevo mai partecipato a una missione umanitaria. Fino ad ora mi ero occupata della raccolta fondi per l’associazione Balò, che provvede a sostenere e far studiare 130 bambini di uno slum di Calcutta e a far lavorare le loro mamme, ma non ero mai stata impegnata in prima linea”.

L’esperienza in Africa è stata entusiasmante.
“Abbiamo visitato più di 70 pazienti ed eseguito oltre 40 interventi in 10 giorni, senza fermarci neanche nei giorni festivi. È stato molto faticoso, ma anche molto gratificante. Mi ha colpito soprattutto la dignità delle persone nell’affrontare malattie anche gravi, l’educazione e il rispetto”.

A causa di una scarsa cultura sanitaria, dopo il trauma i pazienti cercano piuttosto un guaritore o uno sciamano e solo dopo mesi o anni, decidono di recarsi all’ospedale, che magari dista qualche giorno di viaggio a piedi. Il “Saint Jean de Dieu” è stato costruito 50 anni fa dall’ordine religioso dei Fatebenefratelli, conta quasi trecento posti letto e ha degli ottimi standard per il luogo.
“Il reparto di Chirurgia plastica si attiva solo quando arrivano i volontari. Molti pazienti che ho visitato avevano malattie che si portavano avanti da anni senza essere curate se non da qualche guaritore o sciamano. Si decide di andare all’ospedale dopo mesi o anche anni, affrontando viaggi a piedi di giorni per farsi curare”.

Tra i pazienti, moltissimi bambini.
“Numerose le ustioni non curate, soprattutto alle mani e ai piedi: i piccoli spesso sono lasciati incustoditi intorno ai fuochi, sopra i quali sono appoggiati, in maniera estremamente precaria, grandi pentoloni usati per cucinare. Frequentissime anche le ferite, anche perché non si portano scarpe. La mancanza di illuminazione stradale causa anche incidenti tra vetture e i pedoni che camminano al lato delle carreggiate. Inoltre manca l’acqua corrente, quindi spesso le ferite si infettano e bisogna amputare l’arto. Un bambino è arrivato con l’osso della tibia completamente esposto per metà della sua lunghezza, non manifestando né dolore, né preoccupazione alcuna. Abbiamo impiegato un po’ a realizzare che cosa fosse quella cosa bianca. Dopo il nostro intervento ricostruttivo di copertura dell’osso e chiusura della ferita, il nostro bimbo era così contento che ha anche fatto un disegno per ringraziarci”.

Gli interventi eseguiti sono stati diversi.
“Ho operato casi che non avevo mai visto neanche sui libri di specializzazione. Ad esempio abbiamo tolto tre tumori di origine disontogenetica dentale dalle dimensioni spropositate di un grande pompelmo. C’erano anche due anziani: uno aveva l’osso sacro esposto per una vastissima piaga da decubito, un altro il piede completamente ulcerato per il diabete. Abbiamo tolto lesioni cicatriziali enormi (cheloidi) ad alcune donne le quali hanno chiesto il tessuto asportato, per mostrare ai loro mariti che era finita la stregoneria di cui esse erano ritenute vittime”.

Lucia Genestreti