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Sarajevo, la città martire brucia ancora

Una guerra nel cuore del contraddittorio Occidente, quella di Bosnia. A qualche passo da noi e dai nostri problemi, nel 1992, scoppiava un conflitto fratricida. A poco meno di vent’anni dalla fine del conflitto, in Bosnia Erzegovina non c’è ancora pace. Ne sono espressione anche le proteste e gli scontri iniziati il 6 febbraio scorso a Tuzla e diffusisi poi nelle città principali, Sarajevo compresa. E proprio in questi giorni la rassegna Incontri del Mediterraneo ha affrontato a Riccione quegli anni con un ciclo dal titolo “Balcani tra Mediterraneo e futuro d’Europa”. Tante le chiavi di lettura e diverse le opinioni dei relatori.

Giovani, istruzione
e prospettive di futuro
“I giovani bosniaci purtroppo non possono aspirare allo stile di vita occidentale dei loro coetanei” afferma Matteo Bastianelli, autore del documentario The Bosnian Identity “i pochi investimenti che vengono fatti dall’estero includono solo alcuni centri commerciali. Il tasso di disoccupazione è altissimo e questo genera molta disillusione. In questo disagio si annida il culto del profittatore di guerra, del piccolo galeotto…

Francesco Privitera, docente della Facoltà di Scienze Politiche Unibo racconta la sua esperienza: “insegno da anni anche a Sarajevo al Master in Democrazia e Diritti Umani nel Sud Est Europa. Oggi questi temi interessano sempre meno gli uomini, ho una classe di sole ragazze. I ragazzi, chi ha le possibilità economiche, hanno iniziato a frequentare le numerose università private. I miei studenti di oggi non conoscono la propria storia. Ognuno ha la sua storia stereotipata, molti negano degli avvenimenti, altri li ignorano. La Bosnia ha un enorme bisogno di investimenti in istruzione. Da una parte vedo con piacere che la task force che si batte perché la Bosnia Erzegovina entri in Europa è composta da tanti miei ex studenti, anche ex combattenti, dall’altra mi accorgo che c’è lo zoccolo duro di chi rimane. Chi non ha denaro sufficiente rimane in Bosnia, rimane figlio del nazionalismo. Chi studia, conosce lingue, viaggia, se ne va. Non vedo prospettive per il paese Bosnia, come non ne vedo nemmeno per l’Unione Europea.”

Per Ennio Remondino, giornalista già corrispondente Rai a Belgrado “esistono tre etnie che non riescono neanche a decidere una linea guida della loro presidenza tripartitica. Sono paesi che non potranno mai adeguarsi ai criteri dell’Europa, almeno in tempi decenti. Tra questi paesi considero anche l’Albania, la Macedonia, il Montenegro, il Kosovo, la Serbia…: si tratta di paesi che rischiano di far recedere l’Europa e farla sprofondare ancor di più nella crisi. Temo davvero questa cosa.”

“Le aspettative di entrare in Europa erano altissime per i bosniaci – racconta Privitera – anche per riunire nuclei familiari separati dalla guerra. Fino a qualche anno fa era un’opzione realmente valutata, poteva essere finalmente un obbiettivo unico per le tre etnie. Ora invece regnano molto disincanto e frustrazione, così i miti positivi creati dalla guerra riaffiorano.”

Ferite aperte
“È il paradosso della guerra: nascono solidarietà tra sconosciuti e si sfrutta al massimo il genius loci per sopravvivere. Una volta finita la guerra queste cose scompaiono o quasi e sembra che «si stava meglio quando si stava peggio» di qui la subcultura della guerra con i suoi miti positivi” spiega Gigi Riva, fotoreporter e giornalista dell’Espresso. “Ricordiamoci che la Bosnia è stata la fucina delle brigate islamiste all’opera in contesti ben più recenti.”

Remondino: “La Bosnia è stata uno strumento per racimolare i soldi per pagare la riunificazione della Germania, non dimentichiamoci dell’espansione del Marco nell’area balcanica. Durante la guerra l’ONU si impose. In Bosnia non servirono a niente tutti i caschi blu inviati, se non a loro per far carriera: sono realtà che si autolegittimano, strutture e sovrastrutture di funzionari iper pagati, un apparato che serve solo ad alimentare se stesso.” Il suo giudizio sulla guerra in Bosnia e sulla situazione attuale è tranchant. “Sarajevo oggi è una città quasi monoetnica, le componenti croate e serbe sono molto diminuite. Le prime cose che sono state edificate sono le moschee, grazie a fondi arrivati da Iran e Arabia Saudita. I Balcani hanno bisogno di dimenticare”.

Identità
Chi sono oggi le popolazioni balcaniche?
“L’identità non è un concetto immutabile, nel tempo si forma e cresce in modo non lineare” spiega Riva “Prima della guerra c’erano molte persone che si definivano yugoslave, questo per via di matrimoni misti e ideali condivisi. Se quel processo non si fosse fermato la Yugoslavia sarebbe ancora unita. Esistono tuttora persone «yugonostalgiche», ad esempio il fondatore della «Repubblica di Titoslavia», uno stato virtuale che si fonda sugli ideali di Tito e sul ricordo della Yugoslavia.”
“Già nel censimento del 1981 fu difficile risalire al singolo ceppo: milioni di persone risultavano imparentate e quindi di ceppo misto, di altre non si risaliva al ceppo” ricorda Privitera“Le repubbliche imposero di definirsi, di definire la propria identità.”
Il giovane Bastianelli spezza il ritmo del discorso: “Non sono d’accordo sul continuare a distinguere in etnie, è un modo di semplificare la situazione. Oggi non dobbiamo più chiederci se quei ragazzi che passeggiano sul ponte di Mostar sono croati, serbi o musulmani.”

Melania RinaldiniSarajevo, la città martire brucia ancora