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Referendum sul lavoro e quella legge da abrogare

L’8 e il 9 giugno prossimi gli italiani saranno chiamati ad esprimere un o un no su cinque quesiti referendari abrogativi di leggi esistenti, di cui quattro riguardanti il lavoro, compreso la responsabilità del committente nella catena dei sub appalti, oggi inesistente, all’origine di tanti incidenti e morti (1.077 nel 2024, rispetto a 1.029 nel 2023), e l’ultimo sulla possibilità, per un immigrato che vive regolarmente in Italia e paga le tasse, di fare richiesta di cittadinanza italiana dopo cinque anni e non dieci, come capita tuttora. Non sarebbe una novità, ma semplicemente un ritorno alle regole precedenti al 1992. Utile, oltre che un diritto, se è vero, come stima Unioncamere, che nel quinquennio 2014-2028 ci saranno da coprire 3,4-3,9 milioni di posti di lavoro, mentre si calcola che la popolazione in età di lavoro scenderà di 3 milioni. Un bel buco da coprire. I referendum dedicati al lavoro sono la risposta ad alcune norme, di cui si chiede l’abrogazione, contenute nella legge denominata Jobs Act, approvata nel 2015 dal Governo Renzi. Legge che in nome di una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, allentando alcune tutele dei lavoratori, ha ristretto di molto l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, del 1970, sul reintegro dei licenziamenti illegittimi per le aziende con più di quindici dipendenti, che oggi rimane solo per quelli discriminatori, sostituendo tutti gli altri con un indennizzo economico proporzionale all’anzianità di servizio (due mesi per anno di anzianità, con un minimo di quattro mensilità e un massimo di ventiquattro). Un dettaglio non indifferente: le nuove regole valgono per gli assunti dopo marzo 2015, in teoria per i più giovani, mentre per tutti gli altri restano valide le vecchie disposizioni. Una divisione che di fatto tutela diversamente persone che magari lavorano fianco a fianco. L’obiettivo dichiarato del Jobs Act era aumentare, introducendo maggiore flessibilità sulle regole, le opportunità di lavoro, in particolare quello a tempo indeterminato. A dieci anni dall’entrata in vigore della legge si può fare un bilancio, con l’avvertenza che non abbiamo la prova contraria. Cioè cosa sarebbe successo senza la sua introduzione. Come caso prendiamo la provincia di Rimini dove, dal 2015 al 2024, gli occupati sono effettivamente aumentati da 139.000 a 153.000, mentre la disoccupazione è scesa da 15 a 8.000 unità, portando a un dimezzamento del tasso di disoccupazione. Ora se questi numeri possono far pensare ad un esito positivo, quando andiamo a vedere l’andamento degli avviamenti annuali al lavoro il registro cambia. Perché nello stesso periodo si è assistito, sempre a Rimini, ad un quasi raddoppio dei contratti di apprendistato (da 6.000 a 10.000), un forte aumento delle attivazioni di lavoro a tempo determinato (da 58.000 a 73.000) e un crollo dei contratti a tempo indeterminato (da 10.000 a 6.000). In sintesi, nei nuovi contratti di lavoro stipulati nell’ultimo decennio a Rimini non ci sono dubbi che la precarietà ha vinto sulla stabilità occupazionale. Forse è anche questa la ragione per cui tanti giovani decidono, non solo a Rimini, di emigrare. Ultimo, non meno importante: dal 2008 ad oggi i salari reali (cioè tolta l’inflazione) in Italia, caso unico in Europa, sono diminuiti di ben l’8,7 per cento. Non c’è da stare molto allegri.