Qui il degrado è un eufemismo

    Zingari, una parola che è uno stigma.
    Fa pensare. E sul podio dei sinonimi, alla voce nomadi, c’è al primo posto “ladri”, poi “delinquenti”, segue “nullafacenti”. Nel BelPaese sono 140 mila, di cui quasi 90 mila cittadini italiani.
    Un variegato universo etnico, in cima alla lista delle nostre paure e in fondo a quella della nostra stima.
    Un pregiudizio antico, quello verso i Rom, ma che si evolve al passo con i tempi, con l’aiuto dei vari allarmi lanciati da stampa e tg, da quello microcriminalità all’emergenza sicurezza, che sbattuti in prima pagina non aiutano certo ad aprirsi all’accoglienza nei loro confronti.
    Problemi ce ne sono, inutile negarlo, e la convivenza con le popolazioni di origine nomade non è facile.
    Ma quando entri in un campo, il primo impatto è veramente diverso da quello che ci si aspetta, quello preconfezionato. Parli con i nomadi e stereotipi e pregiudizi, assumono via via contorni sempre più sfumati. Ti accorgi che vivono in situazioni al limite della sopravvivenza, spesso anche per mancanza di una politica a loro favore.
    Accade ad esempio all’etnia dei Sinti, italiani a tutti gli effetti che da molte amministrazioni vengono considerati cittadini di serie B.

    Campo di via Islanda: degrado è un eufemismo
    Topi grigi e pelosi, grandi come gatti, tubature d’acqua a cielo aperto e per lo più rotte, tubi di scarico dalle roulottes alle fogne, che non ricevono più, fili della luce a macerare sull’asfalto nelle pozze d’acqua, pronti ad assere rosicchiati dal primo ratto di turno e ad innescare un corto circuito. Per non parlare della puzza, quella che esce dai tombini, tenuti chiusi con cartoni o compensato.
    Tutto questo sotto gli occhi e i piedi di bambini che quotidianamente convivono con il disagio di non essere considerati degni di rispetto. Non hanno gli stessi diritti di un qualunque minorenne, come quello alla sicurezza?
    “Se ci fosse un altro bambino nelle stesse condizioni da tempo sarebbero venuti i servizi socialI” lamentano alcune donne.“Mancano le più elementari condizioni di dignità e incolumità” ribatte un altro gruppetto.
    Ma chi ci deve pensare? “E’un’area comunale, che non viene sistemata da anni. Ci sono i bagni in muratura ma sono stati smantellati, le tubature dell’acqua che perdono, ma non vengono riparate, nessuna derattizzazione. Intanto noi paghiamo la luce a condizioni veramente svantaggiose”.

    Luce, Enel: un “nuovo” allaccio ogni due mesi!
    Nel Campo accendono la luce sulla questione illuminazione. “L’Enel ci fa un contratto e ogni due mesi siamo costretti a pagare 211 euro per l’allacciamento temporaneo, e questo succede da 4 anni, mi sembra abbastanza definitivo, – bolletta alla mano, da una roulottes ci mostrano le fatture pagate – e il mese dopo paghiamo 70 euro circa per un kilowatt di energia, che non basta né per il riscaldamento, né per cucinare. Chiediamo solo di avere le stesse possibilità degli altri cittadini: pagare la nostra bolletta in base al reale consumo”.

    La proposta delle micro-aree
    Le microaree: una possibile soluzione? “Vorremmo microaree, dove abitare con i nostri familiari. Di progetti all’amministrazione ne abbiamo presentati già, ma qui non si muove nulla. – spiega il portavoce Enrico Prina – bastano 4 mila metri quadri di terra per 4/6 nuclei famigliari – e mostra a proposito un progetto di fattibilità realizzato da un altro comune – loro lo hanno fatto. Si possono destinare terreni agricoli. Vorremmo non essere trattati più come bestie”.
    Vista così è una vera e propria ingiustizia, fa indignare, davvero. Poi qualcuno fuori dal campo ci racconta che tra loro c’è chi si allaccia abusivamente alla rete elettrica sulla strada, che nel campo fanno entrare persone straniere dietro compenso e non sono poi così innocenti. Forse la verità sta a metà strada.
    “E’ vero, tanti di noi chiedono la carità, altri rubano, molti lavorano – ammette il portavoce dei Sinti – ma il Comune finora ci ha fatto solo promesse, i consiglieri comunali di maggioranza e minoranza, che sono venuti al campo, scandalizzati da quello che hanno visto ci hanno chiesto come facciamo a vivere sempre in emergenza. Non ci piace di certo, ma non abbiamo altro modo per ora”.
    Su una cosa tutti, compresi i politici, sono d’accordo: è una situazione arrivata ad un degrado estremo e deve essere affrontata da ambo le parti con ampio consenso.

    Buldrini: “situazione indegna, poche soluzioni”
    “Non è solo un degrado estetico, le condizioni di vita lì sono indegne – spiega l’assessore Vittorio Buldrini – è soprattutto sociale e c’è una grossa difficoltà ad affrontarlo, le risposte che vogliono non possiamo darle. Le microaree trovano ostacoli nella gente, che non le vuole nelle zone dove andrebbero destinate. Vedrei meglio una messa a norma del luogo, con un’individuazione certa delle famiglie che vi abitano. E la messa a norma dell’impiantistica, chiedendo il riconoscimento dell’area. Vista l’emergenza, serve una risposta celere con un investimento straordinario. Ma io ho le deleghe all’Immigrazione: i Sinti essendo italiani a tutti gli effetti non rientrano nelle mie competenze”.
    Infatti loro, anche se considerati “stranieri” sono riminesi, da varie generazioni. Molti in via Islanda ci sono nati, hanno la residenza, alcuni hanno genitori metà sinti e metà “gagi”, cioè non “zingari”.
    Hanno figli che frequentano le nostre scuole, o ragazzi come i nostri che dopo le scuole dell’obbligo cercano lavoro, per accaparrarsi un futuro migliore. Come il diciottenne che ci mostra un volantino con l’annuncio di una selezione per magazzinieri alla Coop: vuole provarci, non può più permettersi di continuare a studiare, costa troppo e lui non può pesare sul bilancio famigliare. Ora con la famiglia sta fuori in un’area di loro proprietà.

    Storie del campo
    Sinti di via Islanda: più che un problema, sono pieni di problemi. Cercano di adeguarsi alle regole, ma è difficile in una società che li vede con gli occhi del pregiudizio. Alcuni di loro vengono da famiglie di giostrai, dopo aver girato tanto si sono stabiliti a Rimini. Uno di loro è uscito dal campo, e grazie al Comune ha avuto la possibilità di accedere alla graduatoria per le case popolari dove ora vive con la moglie e la figlia più piccola. Ma in via Islanda sono rimasti i suoi nipoti, il figlio e la figlia con le loro famiglie, i cugini, insomma i parenti tutti, e lui fatica a vivere in casa, gli manca la vita comunitaria. Appena può va al campo, per vivere all’aria aperta, sotto le stelle.
    Non ci si può integrare, se non c’è chi è disposto ad accogliere.
    “Una volta c’era don Oreste che ci difendeva, poi ci hanno abbandonato tutti. Lui mi ha sposato e ha battezzato la mia figlia piccola. Veniva a dire la Messa al campo, e sapeva che a noi ci guardano sempre male, qualsiasi cosa facciamo. – ci dice Enrico Prina il capofamiglia – noi raccogliamo il ferro, ci manteniamo a malapena, siamo iscritti all’ufficio di collocamento, ma sanno che siamo nomadi e non ci chiamano mai”. Stessa famiglia, altra situazione. “Io ho sempre lavorato – racconta il genero che è riminese ma sposato con una Sinti –spesso però, sono stato costretto a non dire dove abitavo, quando i miei colleghi mi accompagnavano a casa mi facevo lasciare a un chilometro di distanza. Se sapessero che sto in via Islanda, sarei catalogato subito come delinquente”.

    Un doposcuola per i bambini
    Nel piccolo Campo ci sono una ventina di kampine, roulottes che contengono in tutto un centinaio di persone, non tutte “razzolano bene”, nel periodo della nostra visita, si sono alternate una pattuglia di poliziotti e una di vigili urbani, sembra ci siano persone agli arresti domiciliari, e controlli da fare.
    Ma c’è anche chi chiede una vita migliore per i suoi figli, chi sarebbe disposto ad andare via da lì, “in una casa popolare, perché loro crescendo non si vergognino di invitare i compagni di scuola a casa propria”, lo chiedono soprattutto i giovani. I bambini invece chiedono un doposcuola. Vogliono diventare bravi come i compagni. Sono loro i primi a volersi integrare. (CiSar)