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Quando don Oreste era zio Quinto

Una storia che arriva dal passato. Un racconto che delicatamente tratteggia i luoghi e la famiglia d’origine di don Oreste Benzi. I ricordi di un nipote che ha deciso di non far cadere il passato nell’oblio scrivendo su un libretto di memorie le sue memorie che si intrecciano con quelle di una figura che ha intessuto tutta una vita con la vita della città: don Oreste, appunto.
Riportiamo, quindi, dalle memorie di Silvano Gnola alcuni stralci partendo dalla descrizione del contesto d’origine del don per arrivare alle titubanze dei genitori riguardo alla possibilità di vedere quel figlio diventare missionario, siano alla prima messa che don Oreste celebra nell’aia della casa di famiglia.

I Benzi di Sant’Andrea in Casale
A circa venti km da Rimini, nella pianura che parte dal mare di Riccione ed a sei o sette prima di arrivare a Morciano, prendendo a sinistra c’era un borghetto di quattro case in croce abbracciato ad una chiesina posta su una “spalla” di terra a ridosso del fiume Conca. Era il centro di Sant’Andrea in Casale, una minuscola frazione guardata a vista dall’alto della collina dal suo capoluogo, San Clemente. Sant’Andrea era il paese dei nonni materni. Qui nacque don Oreste Benzi. Ho detto era non senza una punta di verità, perché il paesino esiste tutt’ora, ma si è ingrandito moltissimo ed è diventato un paesone industriale quasi senza confini con i luoghi vicini e non rispecchia più il borgo piccolo ed agricolo che ricordavo quasi adolescente quando mi recavo dai nonni: solo la chiesa è rimasta tale e quale col “ghetto” di case attorno mentre la sopraggiunta ricchezza ha sconvolto il cimitero ingrandendolo secondo i canoni delle nuove tecniche ed abbellendolo con i tempietti dei ricchi che non desiderano livellarsi e confondersi con il popolino nella nuda terra. Qui, fin dagli anni ’50 è stato un continuo nascere di agglomerati di fabbricati e grandi capannoni che hanno cancellato la vista dei campi verdi o bruni per l’aratura recente, ed alberati, per cui posso dire senz’altro che di questo posto è rimasto ormai solo il nome.

Quando si andava dai nonni…
Quando si andava dai nonni, in filovia fino a Riccione e col caval di S.Francesco fino a casa loro, i contadini intenti ai lavori nei campi sollevavano la schiena curva sugli arnesi da lavoro ed appoggiate le mani a croce sulla zappa, guardavano curiosi la famigliola che macinando passi cittadini andava per le loro strade. Ora tutto è cambiato, tutto è passato, cose e persone: tempora currunt (sic!). Ed è giusto. Ma quel che più conta è che sono rimasti forti i ricordi ed a questi è dolce legarmi e raccontarli a voi figli e nipoti perché come dissi in altre pagine essi rimangano, vivano nella memoria e non si perdano definitivamente. (…) Riprendendo da questa strada. Siamo a circa un chilometro lato a mare o poco più dal paesino che ho detto, dalla strada provinciale che da Morciano portava e porta tuttora, ma asfaltata, a Riccione. (…) Scendeva leggermente da questa strada provinciale per attraversare un rio dalle scarse acque (e rèi ’d Fagnen) il Fagnano appunto, dal quale prende il nome. Risaliva poi dolcemente fra i campi, ornata per un tratto, lato mare, da un’alta siepe di spini che faceva frutti simili a “cappelletti”, a lato monte un minuscolo fossatello la separava dai campi. Percorsi altri duecento metri un piccolo crocevia dirigeva a sinistra ad una casa ed, immagino, al Ghetto Battistella dove ora si trova la trattoria “Fafein”, mentre a monte la stradina ormai ridotta a poco più che sentiero si infilava nelle terre dei contadini che abitavano in quel luogo. A destra si stendevano le molte “prese” di “Fer” che costeggiando il rio proseguivano per allargarsi e quasi circondare le terre dei Benzi. “Fer” era un ricco mezzadro dalla folta figliolanza che conduceva con mano ferma il grosso podere del padrone ed incuteva, per quel che ne poteva capire un ragazzetto come me, rispetto e soggezione nei piccoli proprietari che avevano i loro beni vicini.

Nelle terre dei Benzi
E questi erano i Benzi, appunto, fratelli e cugini che accanto avevano le terre equamente ripartite e frazionate, forse, dai ricorrenti passaggi ereditari. I cugini possedevano più terreno dei nonni, che avevano solamente tre “prese” intervallate dai filari di viti sorrette da piante di olmo, fichi e qualche susino. Nel suo piccolo campo il nonno Achille chiamato “Chilein” coltivava di solito un poco di grano o granturco e dell’erba spagna che tagliava poco alla volta col falcione e lungo i filari seminava piante di favino per rendere più vario e nutriente il mangiare delle sue due bestie. Era bello osservare il nonno manovrare con gesti larghi e solenni questo arnese: sembrava una danza. Ogni tanto interrompeva il lavoro per riposarsi ed arrotare la lunga lama con la pietra affusolata, la “pidrela”. Chiudeva il poderino una piccola vigna che a detta del nonno produceva il miglior vino: parola sua! Guai a contraddirlo perché si sarebbe offeso. “Bon ’sté vein, Peppino?” chiedeva. “Bon, bon Chilein” rispondeva il genero, mio babbo.
Torniamo al crocevia e riprendiamo la direzione iniziale: proseguendo per altri cento metri, rientrante a sinistra, un sentiero con a lato un piccolo orticello diviso a metà fra i condomini, immetteva alla casa dei Benzi che esiste tuttora: non era grande nè piccola ed era la casa dei nonni. Distanti le une dalle altre, lontano, erano le case dei vicini conosciuti tutti per soprannome: Fer, Baldoun, Paternostre, Grana. Poi la stradina proseguiva inoltrandosi fra i campi nella piana verso il fiume Conca piuttosto distante. I nostri passi di ragazzini non osarono mai inoltrarsi da quelle parti. La casa era abitata in condominio da tre famiglie con ingressi ad ogni lato: le due dei Benzi ed una terza fermata da una coppia di persone riservate e senza figli dei quali ricordo il solo nome della moglie: l’Annetta. Sul quarto lato, a mare, c’era la fossa dello “stabio” (la busa du stabie) con la porta per la pulizia della stalla. I nonni possedevano due soli animali di grossa taglia: una pecora e una mucca pezzata di latte. I cugini, dall’altra parte invece avevano, oltre a maggior spazio e terreni più estesi, anche “i bù marmen”, i buoi bianchi da tiro di razza maremmana dalle grandi corna, che servivano per i lavori dei campi e che forse il nonno noleggiava per arare le tre “prese” del suo modesto campicello. La zia Augusta loro mamma, rimasta vedova da tempo dava poca corda ai figli e meno ai cognati e vicini e conduceva la famiglia col polso della vera azdora. Noi che abitavamo a Rimini ed andavamo due o tre volte all’anno a trovare i nonni passavamo di fronte al loro uscio. I nostri genitori scambiavano brevi saluti (Av’ salut zia, cum stèv) e passavamo in fretta dai nonni, Rosa e Chilino, che vivevano con gli ultimi due figli: la zia Italia e Benito, essendo lo zio Quinto, in Seminario e gli altri sposati a Morciano e dintorni. (…)

La visita a zio Quinto
In filovia andammo a trovare lo zio Quinto che prima di essere in seminario a Rimini era nel collegio dei padri missionari comboniani a Riccione. Doveva essere in tempo di carnevale perché gli portammo in dono le castagnole. Mio padre Giuseppe, chiamato da tutti Pino, ma Peppino dai nonni, avveva sposato la figlia più grande Jolanda, Velmina all’anagrafe: e sia che fosse il primo genero o uno di città, era molto ascoltato da loro; lui non desiderava che quel ragazzo diventasse missionario perché temeva che “che burdel”, una volta andato in terra di missione avrebbe corso tanti pericoli e non sarebbe più tornato a casa. Probabilmente immaginava per lui una buona parrocchia in cui potesse vivere tranquillamente con i suoi vecchi. Nella loro indigenza sotto sotto anche i nonni, forse, ambivano ad una cosa del genere perché li sentivo paralre con reverenza di don Castiglion, figlio dei Castiglioni che erano una famiglia abbiente di quelle parti, il quale, credo possedesse anche un calessino con cavallina e “dotato di altri carismi” sarebbe diventato, in tempi recenti, economo della curia riminese.
Ma i nonni non avevano i mezzi finanziari per mantenere il figlio in seminario dove si pagava una retta. Alla fine con molti sacrifici ci riuscirono ed il ragazzo fu, infine, mandato a Rimini e a Bologna a studiare da prete. Lo zio Quinto, don Oreste, non andò in terra di missione in Africa, ma fece il mondo sua terra di missione. (…)

La prima messa di don Oreste
Quando il figlio seminarista divenne prete i nonni fecero le cose in grande e nell’aia, imbandita di tavoli e tovaglie si svolse la festa della prima messa del prete novello: lo zio Quinto (chiamato così in famiglia) quello che per tutti sarebbe diventato il famoso don Oreste. Egli dopo la consacrazione a Rimini da parte del Vescovo Santa “cantò messa” nella sua chiesa parrocchiale di Sant’Andrea. Ad accoglierlo sul sagrato tra la folla di parrocchiani, una nipote, mia sorella Anna di nove anni, col vestitino della festa, che recitò un sonetto composto per l’occasione dalla mia maestra di scuola che cominciava così: “Oh levita, che con le pure mani sacrifichi all’eterno il Figliol suo”.

a cura di Angela De Rubeis

Nella foto mamma Rosa, alla sua sinistra in piedi lo zio Quinto. In alto a destra la zia Italia. In braccio Zio Benito, fratelli di don Oreste