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Pietro da Rimini: autore prolifico senza biografia

<+cap4Cfg>D<+testo_band>i Pietro da Rimini si hanno poche notizie bibliografiche, ma certo è che nelle opere di questo artista si trova la presenza di alcune indicazioni di Giotto. Pietro è il più prolifico tra i pittori del Trecento riminese. Giotto si fermò a Rimini verso il 1303, come tappa verso Padova e lavorò per la chiesa francescana in un ciclo di affreschi che andò distrutto alla fine del Quattrocento, introducendo delle novità che ebbero un’eco immediata sugli artisti romagnoli (come Giovanni e Giuliano da Rimini). Unico superstite dell’opera della chiesa di San Francesco è un dipinto raffigurante un crocifisso, modello sul quale si basa l’unica opera autografa di Pietro da Rimini: il crocifisso di Urbania.
Di Pietro da Rimini, lo storico dell’arte Alessandro Volpe <+nero>(nella foto a sx con Alessandro Giovanardi) <+testo_band>sta scrivendo la prima monografia (che sarà un volume corposo). <+cors>“Non contenete l’entusiasmo di fronte a Pietro da Rimini!”<+testo_band> è l’auspicio che ha rivolto in occasione dell’incontro della rassegna ”I Maestri e il Tempo”. Il docente dell’Università di Bologna in occasione di ”Immagini di Pietro da Rimini. «Montaggio» di un pittore del Trecento” ha evidenziato come il confronto con altri dipinti del Trecento di questo genere non sia immediato (ad esempio quello di Santa Maria in Porto Fuori a Ravenna), ma tutti sperimentano una dimensione fortemente espressiva, evocando una dimensione patetica che richiama l’attenzione degli esperti.
Ciò che è unico in Pietro è la sua completa dedizione ai personaggi dei suoi dipinti, preferendo esprimere le emozioni rispetto alla mera esibizione della tecnica e della credibilità delle scene descritte; le sue figure infatti sono sproporzionate, allungate, elegantemente deformate, sempre alla ricerca del contatto tra loro, tendono ad accentuare la drammaticità dei soggetti, come dimostra la tavola della Deposizione, che si trova al Louvre.
“Un grande e nobile artista, che da quelle membra lunghe e affusolate sa cavare raccordi, contatti e pause insuperabili”, affermava Roberto Longhi, storico dell’arte, su Pietro da Rimini.
Per quanto la maggior parte dei dipinti attribuiti a Pietro non siano di grandi dimensioni, proprio come quelli posseduti dalla Fondazione (Resurrezione di Cristo; Noli me tangere), contengono idee intense, ricercate e patetiche rivelando la grande capacità di sintesi del pittore, che rende anche i gesti più semplici delle scene commoventi. Secondo Volpe l’elaborazione di queste forme potrebbe essere considerata una formula ‘metapittorica’ (pittura che parla della pittura).

A causa delle poche notizie bibliografiche che si hanno, ci sono stati alcuni dibattiti sull’attribuzione di diverse opere a questo artista. Dopo una fase ‘restrizionista’, intorno agli anni ’60 e ’70, è grazie all’ungherese storico dell’arte Miklós Boskovits che si è arrivati a considerare la possibilità che tutte le opere accorpate tra loro da studiosi precedenti rappresentino numerosi aspetti dell’attività di un unico artista, che potrebbe essere Pietro, ma Volpe si discosta da questa teoria. Lo storico dell’arte dell’Alma Mater afferma che il linguaggio usato da Pietro nei suoi dipinti è completamente differente da quello usato nelle opere di Tolentino o di Pomposa, il suo linguaggio ha una qualità più alta, le altre appaiono di natura più popolare.
“Bisogna allenare lo sguardo – afferma Volpe – a riconoscere gli elementi culturali di un determinato pittore. Per recuperare la dimensione autoriale di un artista bisogna recuperare l’autorialità dello storico d’arte”.
Volpe presenta così il “suo” Pietro da Rimini, mettendo in luce la sua figura come studioso dell’arte e recuperando la dimensione di autorialità, persa nel tempo. “Ognuno di noi dovrebbe poter cercare nell’immagine che lo sguardo proietta, cosa è realmente significativo per noi. L’obiettività o la poetica? Una scelta esclude l’altra”.

Laura Pilloni