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Nozze alla tedesca

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Al Teatro Comunale di Bolzano il capolavoro di Mozart tratto da Beaumarchais in un allestimento proveniente dall’Opera di Lipsia

Le-nozze-di-Figaro-Ph-Kirsten-Nijhof-(1)BOLZANO, 1 aprile 2017 – L’opportunità di attualizzare un’opera attraverso la regia, nel tentativo d’intercettare il pubblico odierno e – soprattutto – di contenere i costi di sfarzose ricostruzioni d’epoca, è un interrogativo che si ripropone invariabilmente a ogni nuovo spettacolo. Ed è difficile trovare una risposta univoca: non sempre le modernizzazioni funzionano e anzi, paradossalmente, si applicano meglio ai drammoni storici – si possono adombrare situazioni simili attingendo alla contemporaneità – che a titoli legati a qualche circostanza particolare, mai più ripetutasi. È il caso delle Nozze di Figaro: nel 1786, Mozart e il poeta Da Ponte individuarono nella commedia di Beaumarchais (Le mariage de Figaro) di appena tre anni prima un soggetto ideale per introdurre sul palcoscenico viennese tematiche di stringente attualità. Anticipando quello che di lì a poco sarebbe avvenuto con la rivoluzione francese, avevano così portato alla ribalta l’ascesa della nuova classe borghese, destinata ad affermarsi rispetto a un’aristocrazia ormai in piena crisi. Il successo travolgente ottenuto, non tanto alla première di Vienna quanto nei mesi successivi, dimostrarono come la scelta fosse vincente.
Lo spettacolo del regista Gil Mehmert, andato in scena al Teatro Comunale di Bolzano per la stagione d’opera 20.21 organizzata dalla Fondazione Haydn e frutto di una coproduzione con Lipsia, ambienta il capolavoro mozartiano in un’atmosfera vagamente anni sessanta-settanta (leggibile soprattutto nei costumi di Falk Bauer): un periodo di cambiamenti non tanto politici e sociali, ma soprattutto di costume. La principale preoccupazione registica sembra però quella di mettere in risalto il perfetto intreccio offerto dal libretto, sfruttando la scena fissa di Jens Kilian ed Eva-Maria van Acker – con tante piccole stanze disposte in verticale – che costringe i personaggi a un frenetico dinamismo, sincronizzato con cura. E l’enfasi profusa anche nella gestualità degli interpreti ne accentua ancor più l’aspetto da commedia brillante: appunto quello de La folle journée.
Cantanti dunque credibili come attori, un po’ più in difficoltà – invece – nel rendere in modo icastico i meravigliosi versi di Da Ponte e le sue invenzioni linguistiche (risulta incomprensibile che questo grandissimo poeta non venga inserito nelle antologie scolastiche di letteratura italiana): non è vero infatti che la “parola scenica” nasca con Verdi – lui le darà soltanto il nome – perché incisività e divertita insolenza della battuta sono già perfettamente delineate nei libretti dapontiani scritti per Mozart.
Per una compagnia di canto proveniente dall’Opera di Lipsia, sebbene volonterosa e ben affiatata scenicamente, rendere in una lingua non propria una vasta gamma di accenti è stato uno scoglio quasi insormontabile, che ciascuno ha risolto come meglio poteva. Sejong Chang, nei panni di un atletico Figaro, per dare sfumature e inflessioni comiche al suo canto ha spesso fatto ricorso al parlato; accanto a lui, invece, Olena Tokar è stata una Susanna fluida e sicura, oltre che piena di verve. L’aitante Conte di Mathias Hausmann ha evidenziato buoni mezzi vocali, seppure non sempre gestiti nel modo migliore, mentre Gal James non è riuscita a rendere credibile il personaggio della Contessa. Del tutto plausibile in vesti androgine (un Cherubino che, nelle intenzioni registiche, avrebbe dovuto rievocare Bob Dylan), la corretta Wallis Giunta mostrava i limiti di un canto un po’ incolore. Fra i personaggi minori da ricordare Magdalena Hinterdobler, una Barbarina figlia dei fiori di apprezzabile sostanza vocale; Karin Lovelius, una Marcellina ben timbrata benché il personaggio fosse ridimensionato dal taglio della sua unica aria; e il bravo Patrick Vogel che ha sfoderato voce sonora nel piccolo ruolo di Don Curzio.
Sul podio, Enrico Calesso ha guidato l’Orchestra Haydn glissando su alcune licenze registiche (soprattutto i fastidiosi rumori e certi inutili lazzi) senza imporre con debita convinzione le ragioni della musica. Non bisognerebbe dimenticare che fino agli anni cinquanta alle Nozze di Figaro e a Così fan tutte (a differenza del Don Giovanni) non veniva riconosciuta dignità di capolavoro, forse proprio per i discutibili arbitrii cui queste opere erano sottoposte. Con certe scelte, però, si riporta l’orologio indietro nel tempo.
Giulia Vannoni