Niente di vero sul fronte occidentale

    C’è una cosa che accomuna tutte le guerre, dall’antichità ad oggi, e sono le menzogne. Parola di Ennio Remondino, giornalista RAI ed inviato di guerra dai Balcani negli anni tra il ’92 e il 2000 e poi in Afghanistan e Medio Oriente sino al 2006. Venerdì 29 gennaio, in occasione della giornata della pace, Remondino ha parlato di guerre e del suo ultimo libro Niente di vero sul fronte occidentale in Sala Manzoni, a Rimini. L’incontro è stato organizzato dall’Azione Cattolica di Rimini che ha voluto, così, creare un ponte con la missione diocesana in Albania e avvicinare – anche idealmente – le due sponde dell’Adriatico.

    In che senso le guerre sono menzogne? Non c’è mai verità nelle guerre?
    “No. La condizione di guerra è una condizione di bugia. Lo è, prima di tutto, nella politica, che propone la guerra sempre come un obbligo, come un’alta idealità. Si parla proprio di Idealpolitik: una guerra giusta, una guerra necessaria, o inevitabile. Ma nella Realpolitik, la guerra è sempre uno scontro a favore di chi distrugge più e meglio. Anche a guerra iniziata, poi, le menzogne sono all’ordine del giorno. Nella nostra mente è chiara la disfatta di Caporetto, tanto che il nome stesso ‘Caporetto’ è sinonimo di rotta. Ma durante la prima guerra mondiale, quella grave sconfitta fu spacciata come ritirata strategica sulla linea del Piave.”

    Quindi anche il giornalismo è partecipe di questa menzogna.
    “Sì, anche se non sempre in modo volontario. Mi spiego. Ci sono i trombettisti del regime che sono sempre pronti a sbandierare la verità che fa comodo a chi la guerra la vuol fare. Ma ci sono anche giornalisti in buona fede che raccontano menzogne. Questo può succedere perché il mondo militare, che ormai ha capito come funziona l’informazione, tiene i giornalisti lontano dal fronte, e passa dei comunicati stampa preconfezionati. Nell’ultima guerra del Golfo, se qualcuno ricorda, Bassora è caduta ed è stata riconquistata almeno 20 volte! Invece è caduta solo una volta. La realtà dei paesi di guerra è quasi sempre molto complessa. Anch’io, riguardando alcuni miei reportage dei Balcani, mi accordo di aver detto un sacco di bugie, ma al tempo non potevo saperlo.”

    Insomma possiamo dire che le bugie fanno comodo alla guerra?
    “Senza ombra di dubbio. La prima menzogna sulle guerre è l’idea stessa della guerra e della sua «necessità». Ma c’è anche un’altra bugia ed è la disinformazione e la superficialità. E in questo, spesso, noi giornalisti siamo complici. Secondo un sondaggio della Caritas, il 20% degli italiani non ha memoria neppure di un conflitto avvenuto nel mondo negli ultimi 5 anni. Come a dire: gli ultimi anni poi non sono stati così male, non c’è stata neppure una guerra! Magari! Dalla fine del secondo conflitto mondiale ce ne sono state oltre 200, con più di 20 milioni di morti. Gli analisti le chiamano guerre dimenticate, magari perché sono lontane, o perché influiscono poco sulla nostra vita. Fatto sta che passano nel dimenticatoio, e questo è estremamente ingiusto!”

    La storia non è maestra di vita? Non impariamo dai nostri errori?
    “Spesso impariamo meglio a fare le malefatte! Da Omero a Bush, la guerra è sempre stata più propagandistica. L’epica serviva solo a nascondere l’etica. La guerra di Troia, le vicende di Achille, di Elena cos’altro sono se non un racconto per giustificare una guerra ad una città nemica per il controllo dello stretto dei Dardanelli? Guerra e informazione sono sempre andati di pari passo, «crescendo assieme». Così, negli anni ’40 quando le armi raggiungevano l’acme della distruzione con la bomba atomica, nasceva la televisione e anche l’informazione si preparava ad un punto di svolta. Possiamo citare il Vietnam come uno dei pochi esempi in cui l’informazione ha fatto la differenza. Quella è stata una guerra persa grazie alle immagini trasmesse. Poi, i militari e l’establishment politico hanno subito imparato a gestire i media.”

    Venendo alla sua esperienza personale, cosa pensi della situazione dei Balcani?
    “Se devo essere sincero, non mi aspetto niente di buono. La realtà dei Balcani è stata, e tuttora è, una delle più complesse d’Europa. Sotto Tito, quello che a noi occidentali sembrava un comunismo soft, il primo a prendere le distanze dallo stalinismo – prima ancora del partito comunista italiano – era un mondo tenuto insieme da un muro. Il muro che isolava l’occidente dall’est Europa, era così alto che all’interno della stessa Iugoslavia i confini delle nazioni passavano in secondo piano. Ma stiamo parlando di paesi estremamente diversi. A partire dalla Croazia, che si alleò volontariamente con la Germania nazista e l’Italia fascista, sino alla Bosnia, i cui partigiani per mesi hanno tenuto testa agli eserciti dell’Asse. Insomma, paesi che si sono portati rancore per anni. Nel sud dei Balcani perseverano odi che risalgono alle guerre contro l’Impero Ottomano! La caduta del muro e la dissoluzione degli stati socialisti hanno eliminato, di colpo, l’unico elemento che li teneva assieme. A rendere questa situazione ancora più complessa c’erano i favoritismi dei vari stati europei che andavano ora all’una, ora all’altra nazione.”

    Dobbiamo attenderci un futuro di guerra per tutti i Balcani?
    “Sì, soprattutto per il sud, tutta quella fascia che comprende Albania, Serbia, Macedonia e Grecia.
    La guerra in Iugoslavia si è svolta, per ora, in due tempi, ma temo che ne manchi ancora un terzo. Il primo, in assoluto il più sanguinoso, è stato lo scontro interetnico tra Croazia e Serbia: centomila morti in quattro anni e la comunità internazionale che non interviene. Ricordiamo tutti Sarajevo e il dramma dei mussulmani.
    Poi, nel secondo tempo, c’è stato lo scontro nel sud dei Balcani. Protagonisti Albania e Serbia, o meglio: il Kossovo. Qui la situazione è stata opposta. Non solo la comunità internazionale – gli americani – sono intervenuti, ma l’hanno fatto smaccatamente a favore degli albanesi del Kossovo. Questo ha generato parecchi malumori nel resto del paese.
    Questo è lo scenario che si prepara per il terzo tempo. Dato che il Kossovo ha visto esauditi i suoi desideri di indipendenza, come si comporteranno quei 6 milioni di albanesi sparsi per tutto il sud della Serbia, Macedonia e nord della Grecia?”.

    Stefano Rossini