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Mio padre e il dono del Fogazzaro

“Lo sai che più si invecchia, più affiorano ricordi lontanissimi, come se fosse ieri mi vedo a volte in braccio a mia madre e sento ancora i teneri commenti di mio padre, i pranzi le domeniche dai nonni, le voglie, le esplosioni irrazionali, i primi passi, gioie e dispiaceri…”.
Franco Battiato canta con nostalgia la sua giovinezza portando al massimo livello, da grande artista quale egli è, quel processo di mitizzazione dei ricordi che è atteggiamento più o meno generalizzato in chi ha raggiunto un’età in cui la ragione, prevalendo sull’istinto, avverte che in buona parte il percorso esistenziale è stato compiuto; l’età in cui l’individuo si sente come un albero che sta perdendo irrimediabilmente le sue chiome e, di fronte alla crescente pericolosità dei venti e delle tempeste, presta sempre maggiore attenzione, lasciando da parte la presunzione e la temerarietà proprie della gioventù, a ciò che ancora lo tiene legato alla terra e alla vita: le sue radici.
Sul piano intellettuale è forse questo meccanismo mentale che porta spesso chi avverte il pericoloso incalzare del tempo a rivolgere la sua attenzione al passato, a chiudersi nelle biblioteche e negli archivi per studiare la storia della terra dove ha vissuto e, se possibile, dei suoi antenati. Più modestamente coloro che, come me, stanno ormai giocando la seconda metà del secondo tempo della partita della vita spesso danno una maggiore importanza ai ricordi e, nell’assenza di una tradizione orale che ormai sta purtroppo scomparendo, al reperimento degli strumenti che dei ricordi sono fedeli custodi: le carte.

Storia di una ricerca
La mia ricerca non è stata facile a causa dell’atteggiamento mentale di mia madre che, di fronte alla perdita di una persona cara si illudeva di attenuare il dolore lacerante con un comportamento distruttivo verso gli scritti, e a volte anche le foto e gli oggetti di chi era mancato, come se l’assenza di elementi di ricordo potesse rendere meno bruciante la ferita in applicazione, in questo caso patetica, del vecchio detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Ma, pur nelle difficoltà, il mio cercare non è stato vano ed ha ottenuto un risultato, una scatola rossa con il coperchio di cuoio decorato da uno stemma inciso, una di quelle scatole che una volta si regalavano nelle grandi occasioni ed avevano un contenuto raffinato: le carte da lettere eleganti e preziose, accompagnate dalle relative buste legate da nastrini colorati. Sollevato il coperchio, ecco apparire altre carte, le carte di mio padre.

L’atto finale
La prima, quella che poggiando sulle altre si offre all’attenzione, non è scritta da lui; non è un punto di partenza ma un atto finale, come precisa il suo autore, il professore e preside Romolo Comandini che, da grande storico attento ad ogni evento, sapeva che non sono i massimi sistemi ma gli uomini, grandi e piccoli, che fanno la storia. Trattasi di alcuni fogli fittamente dattiloscritti conclusi da una dedica manoscritta indirizzata a mia madre. Solo il saluto di un amico ad un amico, come si evince dal titolo: “Commemorazione del prof. Renato Ioli (+ 6 maggio 1969) tenuta da Romolo Comandini nella Chiesa di San Nicolò di Rimini il 7 giugno 1969”, e dalla prima frase “Forse ho peccato di presunzione, accettando di buon grado l’invito a ricordare a voi, amici e concittadini, l’amico e concittadino prof. Renato Ioli in questo giorno trigesimo della sua deposizione”.
Affiorano i ricordi, la Chiesa piena di gente, colleghi insegnanti, studenti di ogni età, il prof. Comandini che dal pulpito parlava con la sua voce forte che imponeva l’attenzione: “In questo generale sovvertimento di valori, nessuno sa più quali debbano essere i temi meritevoli di essere discussi da cristiani consapevoli, sia o non sia prossima la morte; c’è chi dice che ci si debba preoccupare dei problemi della giustizia in questo mondo, senza rinviarne la realizzazione nell’altro; c’è chi per contro trova giusto o comodo affermare che il Regno di Dio non è di questo mondo, per cui val meglio guardare al di là del confine che delimita il tempo e l’eternità. Non sarò io a pretendere di risolvere questo problema, che costituisce forse il punto nodale al di qua e al di là del quale trovansi due diversi tipi di religiosità, che ancora non riescono ad incontrarsi e a fondersi.
Il nostro Renato, che vede Dio «rivelata facie», non ha più di questi dubbi, di queste incertezze; noi ci dobbiamo rassegnare ad esser dubitosi ed incerti, finchè non giungerà il nostro giorno. Quando? Non è consentito prevederlo, ma giungerà, come è giunto per te, Renato, com’è giunto per Alvaro Bianchi e Giorgio Bertini, tre amici cari che io conobbi, or son vent’anni, entrando per la prima volta nelle aule severe del nostro Valturio. Legammo subito fra noi, perché non tardammo a scoprirci affini, per interessi culturali, politici, religiosi; religiosi, soprattutto, perché, in ragione forse dell’educazione ricevuta nei nostri giovani anni, eravamo soliti riportare alla religione, intesa in senso lato e in senso stretto, tutti i problemi che ambivamo risolvere”.

Affiorano i ricordi
Altri ricordi affiorano alla mia memoria: lo zio prete, don Salvatore Ioli, parroco di Macerone, che ogni tanto veniva a trovarci ed era ormai ultraottantenne ai tempi dell’incontro descritto da Comandini. Il babbo era stato in parrocchia presso di lui, quindi aveva frequentato il seminario vescovile di Rimini e il seminario regionale di Bologna.
Intendeva divenire sacerdote, ma prevalse in lui la volontà di farsi una famiglia, che volle numerosa (sei figli più un settimo, una bambina, morta infante nell’immediato dopoguerra).
Poi il prof. Comandini tocca il punto più interessante dal punto di vista storico:
“Conseguita la laurea in lettere, per 32 anni Renato continuerà ad essere maestro di innumerevoli schiere di giovani che a Bolzano, a Cesenatico, a Subiaco, a Salonicco, ma soprattutto a Rimini, impareranno da lui, coi rudimenti del sapere, la difficile arte di vivere. L’anno trascorso a Subiaco gli consentirà di venire a contatto con un esponente del riformismo cattolico d’inizio di secolo, con quel monsignor Lorenzo Jella che in gioventù era stato amico di Fogazzaro, e che, per essere stato promotore dell’iniziativa di concedere la cittadinanza onoraria subiacense allo scrittore vicentino, aveva dovuto passare non piccoli guai. Mons. Jella non tardò a rendersi conto della ricchezza che si racchiudeva in quella apparentemente rude anima di romagnolo e lo mise a parte delle sua confidenze, e gli fece dono di un prezioso inedito fogazzariano, che Renato soleva mostrarmi con gelosa compiacenza”.

La lettera di Fogazzaro
La lettera di Fogazzaro! Come in un flash back mi sembra di avere davanti agli occhi mio padre che me ne parla mostrandomela nella sala della casa di mattoni rossi in via Gambalunga. Raccontava che al momento di congedarsi da Mons. Jella per lasciare Subiaco e tornare a Rimini, l’alto prelato mise sul tavolo alcune lettere dell’autore di Piccolo Mondo Antico, pregandolo di sceglierne qualcuna e di tenerla quale suo ricordo. Mio padre ne scelse una in cui lo scrittore si doleva delle difficoltà incontrate dal monsignore a causa della sua amicizia: “Scelgo questa perché parla di lei e sarà sempre un suo ricordo” aveva detto.
La lettera di Fogazzaro! Il terrore immediato è che possa essere stata vittima delle reazioni distruttive di mia madre, per cui sfoglio freneticamente le carte con ansia e preoccupazione. Finalmente appare un piccolo foglio piegato in due, un po’ ingiallito e sfrangiato su un lato, Tiro un sospiro di sollievo e leggo:
“Vicenza 19-3-1906, Carissimo monsignore apprendo una cosa dolorosissima, è superfluo dirle quale. Causa ne sono io, incolpevole, ma causa: e me ne affliggo amaramente e per quanto mi sia dolce la memoria del 1 marzo, vorrei aver declinato il Loro invito. Dettale l’afflizione mia, non Le so dire altro, impotente come mi trovo a qualunque rimedio. Intendevo mandarle tra pochi giorni un mio ritratto. Lo manderò egualmente ma a patto che Ella lo tenga ben nascosto! Gli obblighi che già tenevo verso di Lei li sento cresciuti a mille doppi. Se potrò avere occasione di esserle utile in qualche cosa ne sarò felicissimo.
Intanto creda al mio profondo rammarico e alla mia sincera affezione! Suo d.mo, Antonio Fogazzaro”
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Lo scrittore vicentino
Il 1906 fu un anno drammatico per lo scrittore vicentino, che era anche Senatore del Regno, uomo di grande fede dopo un periodo di crisi religiosa e seguace di quegli esponenti del cattolicesimo liberale, sia sacerdoti che laici, che si ponevano come obiettivo la riforma della Chiesa ed avevano dato vita al movimento conosciuto come “modernismo”, movimento avversato da Papa Pio X e dalle gerarchie ecclesiastiche. Il suo ultimo romanzo Il Santo, che concludeva una trilogia iniziata con Piccolo mondo antico e proseguita con Piccolo mondo moderno, dopo essere stato inizialmente accolto anche con entusiasmo in ambienti cattolici, fu vietato e messo all’Indice dall’allora Santo Uffizio il 5 aprile 1906. Era molto difficile pensare che le cose potessero andare diversamente leggendo il romanzo, in cui Benedetto, ortolano in un convento, si rivolge direttamente al Papa implorandolo di uscire dal Vaticano, ove si era rinchiuso dopo la breccia di Porta Pia “di se stesso antico prigionier”, come diceva Carducci. Dal Vaticano, il Papa sarebbe uscito quasi quarant’anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, quando Pio XII raggiunse il quartiere romano di San Lorenzo per portare conforto alle vittime di uno dei più sanguinosi bombardamenti della capitale. Fogazzaro piegò il capo e si sottomise al provvedimento del Santo Uffizio. Morirà cinque anni dopo, nel 1911: “Che cosa resterà di me, del transito terrestre, di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita?” si chiede Battiato con la sua musica che è poesia. I protagonisti della nostra vicenda, gli uomini di questa storia, certo del loro transito hanno lasciato traccia.

I miei ricordi
Se ne sono andati prematuramente anche molti componenti quel cenacolo di professori cui Comandini fa cenno nella sua commemorazione.
Ricordo quelle serate di fine settimana! Pur nelle difficoltà quotidiane di tirare avanti famiglie spesso numerose con lo stipendio modesto di insegnanti, io li rivedo ancora, pervasi da grandi entusiasmi ed aspettative per un futuro più appagante in campo sociale e religioso. Di alcuni rammento appena il cognome, Del Monaco, Massarelli, di altri anche il nome come Giorgio Bertini, grande amico di mio padre, scomparso qualche anno prima di lui.
I tratti dei loro volti sono resi insicuri alla mia memoria dal trascorrere del tempo. A volte mi chiedo se sarebbero stati contenti di quanto è accaduto dopo di loro, e ne dubito molto. Una certezza è invece il rammarico che mi angustia per non avere io, ragazzo presuntuoso e stupido, saputo approfittare della grande opportunità offertami dalla loro frequentazione, quella di poter far tesoro delle loro qualità e dei loro insegnamenti; e mi sento così arrabbiato con me stesso da non concedermi neppure l’attenuante della giovane età.
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa”. Sono versi di John Donne, religioso e poeta inglese vissuto a cavallo tra il cinquecento e il seicento, versi resi immortali da Hemingway nella prefazione al suo capolavoro Per chi suona la campana. Purtroppo ogni uomo è divenuto sempre più un’isola e nasconde nel suo intimo un bagaglio di esperienze, aspirazioni, sensibilità, che difende gelosamente dall’esterno e spesso si porta dietro con la sua morte, racchiuso un una scorza dura nella quale solo un figlio affettuoso, un amico sincero o una donna innamorata possono riuscire a far breccia. Ed io non riesco ad evitare di pensare a quei versi, interpretandoli in un senso meno cristiano e più egoistico, rammaricandomi non per ciò che io potevo dare a chi se n’è andato, ma per ciò che lui, chiunque egli sia stato, ricco o povero, colto o illetterato, avrebbe potuto donare aprendo la sua scorza dura a chi ne era meritevole.
Anche in questo senso, come dicevo egoistico ma ugualmente doloroso e angosciante, “la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”.

Antonio Maria Ioli