Home Cultura ll Tibet e quell’arte così… romagnola

ll Tibet e quell’arte così… romagnola

Agostino Giorgi, originario di San Mauro Pascoli, fu il primo romagnolo a subire il fascino dell’oriente. Seppur mai stato al di là degli Urali, raccogliendo le testimonianze dei missionari ha cercato di concepire un’opera di evangelizzazione per confutare il buddismo. Se l’origine della sua affezione al Tibet è per noi ignota, è invece lampante quella di Chiara Bellini (nella foto): fu un sorriso che le porse il Dalai Lama in visita a Rimini, quando lei aveva 13 anni, che la contagiò irreversibilmente. Laureata in Filosofia a Bologna – dove è ricercatrice per il Dipartimento di studi linguistici e orientali –, con un dottorato in studi tibetologici presso l’Università di Torino, insegna all’ISSR “A. Marvelli” di Rimini. Studiosa d’arte indo-himalayana, la Bellini all’interno del ciclo di incontri “I Maestri e il Tempo” organizzata dalla Fondazione Carim, si è soffermata sull’arte tibetana e i rapporti con la Romagna. Pretesto della disamina, l’Alphabetum Tibetanum di Agostino Giorgi (1762). La permanenza di tre anni della Bellini nella regione del Ladakh (Tibet indiano) le ha dato la possibilità di sciogliere molti interrogativi legati a questa cultura e di stringere rapporti di amicizia con i monaci del luogo.
Il buddismo è una religione estremamente antica sviluppatasi nel VI secolo a.C. in India. L’arte figurativa tibetana è pregna di questo carico storico e dell’indissolubile legame con la sua spiritualità. Gli esempi iconografici presentati, con la loro logica frattale minuziosa e la straordinaria complessità compositiva, sono in grado di confondere anche il più attento osservatore. Eppure il fascino delle commistioni cromatiche, delle geometrie pindariche e della ricchezza simbolica rimane indiscutibile. Alcune immagini proposte da Bellini possono fare luce su alcuni concetti chiave del buddismo, che spesso si orecchiano e rimasticano senza conoscerne il significato più intimo. Vi sono persino analogie con la tradizione cristiana, che hanno forse influenzato la nostra cultura letteraria. Esemplificativa e seducente è la tavola del “chakra” del tempo: una ruota fatta di spicchi, simili ai gironi danteschi, che raccontano le diverse condizioni umane riscontrabili dopo la morte. Con una sfrenata opulenza di dettagli e un turbinio di colori, sono raffigurati il “Nirvana”, il paradiso buddista raggiungibile attraverso l’illuminazione, e la “Reincarnazione”. Quest’ultima – ha spiegato Bellini -, a differenza dell’effetto sortito sull’opinione pubblica occidentale, è vista dal buddismo come sofferenza, dato che la vita in quanto tale è concepita come tormento (“Samsara”). Ecco perché le divinità, come il buddha di lunga vita “Amitaba”, vengono rappresentate con un leggero sorriso: per accompagnare il fedele nell’arduo percorso quotidiano. Una connotazione singolare dell’arte tibetana è l’anonimato dell’artista. Essa è talmente amalgamata con la spiritualità che l’unico oggetto di venerazione è l’icona stessa. Non la maestria dell’artefice; una condizione analoga al nostro periodo pre-rinascimentale – ricorda Bellini – individuabile nell’arte paleocristiana e bizantina. Il primato del significato sull’opera è confermato dalla presenza di simboli: più ce ne sono, più l’opera ha valore, a discapito della sua antichità, che scivola in secondo piano. Per questo, opere molto recenti, ma dalla fitta trama simbolica, possono riscuotere più successo di altre più antiche, ma più scarne. Il momento massimo di confluenza fra arte e preghiera è rappresentato dal “màndala” (il cosmogramma iniziatico), ovvero una pratica religiosa in cui si mescolano manualità e preghiera. Essa consiste nella rappresentazione figurativa dell’origine del cosmo da parte di monaci che hanno, così, l’occasione di identificarsi con la divinità raffigurata, al fine di assumerne le capacità spirituali. Tale produzione che può richiedere alcuni mesi viene poi distrutta una volta ultimata, perché l’essenza di tutte le cose è il “Suniatà”, il vuoto: la dissoluzione del tutto. Le polveri che lo compongono vengono disperse nelle acque per far sì che la loro sacralità si dirami in tutte le direzioni. Bellini contribuì all’esecuzione di un màndala, e al termine le venne consegnato un mucchietto di polvere da disperdere nel mare di Rimini.
La Cina ha cercato di estirpare la cultura buddista dalla regione. Nonostante i conflitti politico-religiosi che l’hanno tormentato, il Tibet è sopravvissuto perché “vive nel cuore dei tibetani” chiosa Bellini. Ora che la libertà di religione è stata ripristinata, ci si è resi conto che la spiritualità ha saputo perdurare grazie alla fede indissolubile di questo popolo.

Mirco Paganelli