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L’impresa è un bene «Civile»

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“Non vedo imprenditori, ma prenditori”. Una frase chiara, diretta e che se ne infischia del politically correct quella pronunciata dal presidente del Rimini Calcio, Giorgio Grassi, in un recente intervento sul Corriere Romagna. Una stoccata che non è la sola, in quello che tutti i giornali definiscono un intervento a piedi uniti da parte del patron biancorosso, usando una non troppo ricercata metafora calcistica. Ma non è di calcio che stiamo parlando.
Stiamo parlando di impresa, di economia e, soprattutto, di senso civico. Il pomo della discordia è il cosiddetto Art bonus, un meccanismo statale attraverso il quale è possibile finanziare opere di interesse pubblico con erogazioni liberali private, in cambio di una detrazione fiscale del 65% di ciò che si è donato. Un meccanismo con il quale ristrutturare la tribuna centrale del “Romeo Neri”, considerato un bene storico patrimonio di tutta la città: dei 100mila euro necessari, però, finora solo 30mila sono quelli raccolti, di cui 20mila messi dallo stesso Grassi. Tradotto: l’imprenditoria riminese ha messo solo 10mila euro. Nient’altro che spiccioli. Da qui lo sfogo del presidente biancorosso, contro un sistema in cui “sta prevalendo la paura del rischio”, nel quale “non si fanno scelte in funzione di ciò che sarà la città tra 10-20 anni” e che “non sta restituendo al territorio nulla di quello che prende”.
Al di là dei toni utilizzati, però, le frasi di Giorgio Grassi puntano la luce su un tema di fondamentale importanza: quale rapporto deve intercorrere tra le imprese ed il loro territorio? Un’impresa che guadagna grazie all’ambiente in cui opera, come ripaga l’ambiente stesso?
Per poter riflettere nel modo più critico possibile sulla questione in esame, però, occorre fare un passo indietro, allargare il punto di vista e ragionare da una prospettiva più generale e teorica. Abbiamo interpellato il professor Stefano Zamagni, riminese, economista e docente dell’Università di Bologna, per un’analisi generale sull’argomento.

Professore, come si deve intendere il rapporto tra l’impresa e il proprio territorio?
“Per poter iniziare un’analisi sul tema è utile citare una frase attribuita a Henry Ford, che recita: «Quel che è bene alle imprese è bene per la Nazione», che mette bene in luce la concezione di questo rapporto in passato. Una frase importante perché oggi è un concetto che va completamente ribaltato: ciò che è bene per la comunità è bene per l’impresa”.

Perché? Cos’è cambiato?
“La visione si è completamente rovesciata. In passato era il mondo imprenditoriale che doveva ricevere dalla comunità, e per comunità intendo la comunità-Stato, tutta una serie di incentivi per poter investire e contribuire alla crescita della ricchezza collettiva. Oggi, al contrario, è l’impresa ad avere l’iniziativa. Oggi è l’imprenditore ad essere responsabile nei confronti della propria comunità, nella quale opera”.

Diversi imprenditori del nostro territorio, interpellati sul tema, hanno la tendenza a mettere in luce il proprio impegno benefico. Questa non è già responsabilità verso la comunità?
“Certo. Ovviamente l’impegno degli imprenditori nella beneficenza e nella filantropia è molto importante, e deve continuare a esistere. Il punto è che non è sufficiente per la crescita generale di un territorio. È sì un bene, ma non basta. In senso tecnico, oggi occorre passare dal concetto di responsabilità sociale dell’impresa a quello di responsabilità civile d’impresa”.

In senso non tecnico?
“La parola chiave di questo concetto e di questo cambiamento è «civile». Tradotto: la responsabilità dell’impresa non va intesa solo nei confronti dei propri lavoratori, o anche verso i più bisognosi in generale, perché si è ancora nella sfera del sociale. Occorre invece fare un passo ulteriore e concepire una responsabilità nei confronti dell’intera città, «civile» appunto, che spinga l’imprenditore verso una vera e propria trasformazione della realtà: attraverso la nascita e la crescita di biblioteche, case editrici, cultura in generale. Una figura avanguardistica in questo senso, per fare un esempio, fu certamente Olivetti”.

In generale, in Italia, c’è questa consapevolezza?
“Purtroppo no. Il punto è proprio questo: in Italia bisogna battere fortemente il sentiero della responsabilità civile d’impresa, perché è un concetto che sembra non entrare in testa agli attori italiani. Ed è un problema generalizzato, non locale. Occorre continuare ad evidenziare che un’impresa ha successo se cresce il territorio di riferimento. E non è un’utopia: all’estero ci si è già arrivati”.

E perché in Italia no?
“Perché nel contesto italiano ha trionfato, dal dopoguerra in avanti, il modello neo-statalista. Un modello secondo il quale tutto ciò che attiene alla sfera pubblica deve essere gestito ed amministrato dallo Stato in modo esclusivo, senza alcun nesso con il mondo privato. E, purtroppo, ancora oggi siamo drogati da questa mentalità, che va assolutamente cambiata”.

La ricetta, quindi, è un cambiamento culturale.
“Esatto. Occorre passare dalla concezione di sussidiarietà verticale a quella di sussidiarietà circolare: in un sistema verticale la pubblica amministrazione decide e gli altri operatori agiscono. La sussidiarietà circolare, invece, vuole che tutti gli attori del sistema economico stabiliscano dei nessi non verticali, dall’alto al basso, ma fondati sulla collaborazione, sull’intreccio e, soprattutto, sulla condivisione. Chi è già arrivato a questa consapevolezza e soluzione è la Dottrina Sociale della Chiesa. E infatti, non a caso, è proprio questo il modello preso a riferimento per arrivare al cambiamento culturale di cui ho parlato, anche dai non cristiani o dai non credenti”.
Simone Santini