
A Roma Adriana Mater di Kaija Saariaho con la regia di Peter Sellars in prima esecuzione italiana
ROMA, 11 ottobre 2025 – «Nelle sue vene scorre il sangue della vittima e quello del carnefice… Sarà Caino o Abele?». Un interrogativo angosciante, in grado di rendere tutta la sofferenza che attanaglia una giovane donna in attesa del figlio concepito dopo uno stupro: una violenza privata che s’inserisce nella tragedia collettiva innescata dalla guerra. Ed è proprio quest’ultima, tremenda parola a ritornare in modo ossessivo in Adriana Mater: ‘opera in due atti e sette quadri’ composta da Kaija Saariaho nel 2006, sull’onda delle ferite aperte sia dall’11 settembre sia, soprattutto, dal conflitto dei Balcani, che fece della violenza sessuale un’arma di offesa fra le più atroci. Mai come adesso di drammatica attualità.

Tuttavia, quando l’opera venne rappresentata per la prima volta a Parigi, non fu un successo: congiurarono molti fattori negativi, mentre il rimaneggiamento effettuato in seguito – soprattutto la drastica riduzione dell’elettronica – ha reso giustizia alla musica e al potente testo di Amin Maalouf. Trasferitosi in Francia, lo scrittore di origine libanese ha fornito altri libretti a Saariaho (anche lei aveva scelto da tempo Parigi, dove è morta due anni fa) e conosce per esperienza diretta molte situazioni descritte nei suoi libri, avendole vissute sulla propria pelle e dei suoi familiari.
Lo spettacolo dell’Opera di Roma, dove Adriana Mater è stata proposta in prima italiana, faceva riferimento – come è ovvio – alla nuova versione. Autore dell’allestimento Peter Sellars, che ha individuato nei quattro personaggi tratti archetipici della nostra contemporaneità o, quanto meno, di quell’umanità che è riuscita a non mettere la sordina ai sentimenti. Ne è scaturito uno spettacolo di notevole impatto drammatico, che evoca nella sua essenzialità la tragedia classica, a cominciare dalla disposizione geometrica, quasi oratoriale, del coro e dalla scelta di mettere l’orchestra sul palcoscenico: un modo eloquente per lasciare la musica sempre in primo piano. Sellars, poi, non colloca il direttore al centro: sta sulla destra del palco, senza dare le spalle al pubblico, anche lui partecipe di una tragedia che vuol essere il più possibile condivisa.
Le luci di Ben Zamora illuminano il buio della scena attraverso una serie di neon dai colori continuamente cangianti; i quattro personaggi si muovono su nude pedane poste al proscenio e in mezzo all’orchestra; assenti gli oggetti di scena, tranne il fucile con cui il figlio vorrebbe uccidere il padre; cambiano solo i vestiti (costumi di Camille Assaf), visto che tra primo e secondo atto passano diciotto anni.
Molto curata la gestualità degli interpreti a cominciare dalla protagonista, il mezzosoprano irlandese Fleur Barron, che ha sfoderato una ricchissima tavolozza espressiva: sempre a suo agio con una scrittura che alterna un andamento lirico a repentine ascese in acuto, d’incisiva espressività. Il soprano Axelle Fanyo ha disegnato la sorella Refka, un personaggio che dà voce al senso comune, facendo ricorso – a seconda dei momenti – a toni aspri e perentori o dolci e suadenti. Assai credibile nei panni dello sbandato Tsargo, che si esprime a monosillabi e in modo sempre brutale, il baritono Christopher Purves. Interprete del figlio Yonas, il tenore Nicholas Phan è stato in grado di trascolorare dalla giovanile, rabbiosa energia (quando medita di uccidere il padre, stupratore della madre) a una riflessività titubante di fronte all’orrore di macchiarsi a sua volta di violenza: si dimostra così autenticamente figlio di Adriana, animato dalla quella sua stessa pietas che un tempo l’aveva fatta decidere di non abortire.
Bravissimo il direttore spagnolo Ernest Martínez Izquierdo (per trent’anni fra i più fidati collaboratori di Saariaho), che – nomen omen – tiene pure la bacchetta con la mano sinistra. Ha guidato con millimetrica precisione l’orchestra e il coro a ranghi ridotti, traendone una risposta sempre nitida, in grado di valorizzare tutta la ricchezza del tessuto sonoro (grazie anche al sound designer Timo Kurkikangas). Il direttore è riuscito a mantenere una tensione ininterrotta, da cui gli ascoltatori vengono lentamente catturati. Non si ha solo la percezione di un linguaggio musicale profondamente innovativo, ma di un’esperienza emotiva che aiuta a intravvedere un barlume di speranza in questi tempi difficili. Ben oltre il breve spazio teatrale.
Giulia Vannoni




