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La versione femminile dell’economia locale

All’inizio del 2023, in provincia di Rimini, si contavano 341.000 residenti, di cui 176.000 donne.  Di questo numero, in età da lavoro, cioè compresa tra i 15 e i 64 anni, c’erano 218.000 persone, di cui 110.000 donne. In entrambi i casi la componente femminile supera la metà del tutto. Se questo equilibrio demografico si mantenesse nei luoghi e nel tempo dovremmo ritrovarlo dappertutto. Ma, come vedremo, non è così. Anche se miglioramenti ci sono stati.

Donne e occupazione
Nel 2022, sempre in provincia di Rimini, avevano un lavoro 145.000 persone, di cui 65.000 donne. Un po’ meno del 45% del totale. Dieci anni prima il contributo femminile era il 43% scarso. Avere l’età per lavorare vuol dire che si può, ma non è detto che poi si trovi o si voglia. Infatti, mentre per ogni 100 uomini in età per lavorare 73 risultano occupati, la percentuale scende a 58 quando si tratta di donne. Una differenza, in meno, di 15 punti percentuali. Un decennio prima la stessa forbice, a Rimini, superava i 19 punti percentuali. Il ritardo nell’inserimento delle donne nel mondo del lavoro non è una particolarità di Rimini, ma in questa provincia mostra qualche differenza di troppo. Tanto da risultare, nel 2022, il più basso della Romagna e dell’intera regione. Per non citare Modena e Bologna, dove trovano lavoro 66 donne su 100. Ben 8 punti percentuali sopra Rimini.

Purtroppo il deficit di opportunità di lavoro per le donne riminesi non è un fenomeno recente, tanto che se torniamo all’inizio dell’anno Duemila, la differenza, in negativo, rispetto al resto dell’Emilia-Romagna era grosso modo la stessa. Vuol dire che la struttura economica locale, cioè il sistema di imprese, con tanti contratti di lavoro brevi, principalmente nel turismo, non può fare di meglio. Giocoforza, se le occasioni di lavoro languono, le donne disoccupate o forzatamente inattive  (non cercano lavoro perché sanno di non trovarlo) sono, a Rimini, molto più numerose che altrove: nel primo caso l’8%, contro una media emiliano-romagnola del 5%; nel secondo il 37% a fronte del 32% regionale. Lettura semplice: meno lavoro, uguale più disoccupazione.

Donne e salari
Dalle disuguaglianze delle opportunità di genere a quella dei salari il passo è breve. Secondo l’Osservatorio 2022 dei lavoratori dipendenti (privati) dell’Inps, una donna si porta a casa, in provincia di Rimini, una retribuzione media giornaliera di 69 euro (per 8 ore di lavoro, ma spesso sono di più, non si arriverebbe ai 9 euro del salario minimo legale proposto, ma rifiutato dal governo in carica) a fronte di 92 euro di un uomo. Sommato al fatto che una donna lavora 199 giornate l’anno e un uomo 220 giorni, il salario annuale non arriva a 14.000 euro per la prima, ma supera 20.000 euro per il secondo. In sintesi: le donne, tra paghe base e periodi di lavoro più brevi, guadagnano il 30% in meno. Il dato medio ovviamente ha le sue variazioni, dipendendo anche dal settore di attività. Per esempio, nel turismo (alloggio e ristorazione), dove trovano impiego circa 20.000 donne, tra cui molte immigrate, costituendo la maggioranza del settore e più della metà con contratti stagionali, una donna prende giornalmente 59 euro e un uomo 66 euro. E non può nemmeno aspirare alla qualifica di dirigente, perché nel turismo non ci sono (di nessun genere). E su 37 quadri in tutto, le donne sono appena 8. Cioè lo 0.04% di tutte le donne che lavorano nel turismo! In seconda posizione, per offerta di lavoro femminile, troviamo la manifattura, con quasi 6.000 occupate e lo stesso divario salariale di genere. In un altro settore a forte dominio femminile, sono l’80% dei dipendenti, come sanità e assistenza sociale, una donna guadagna diariamente 63 euro e un uomo 77 euro. Solo nell’istruzione, dove la quota femminile si allinea alla sanità, le differenze sono meno marcate.

Sull’origine delle differenze di genere
Sulla natura e l’origine delle differenze salariali di genere, anche all’interno dello stesso settore di attività, le spiegazioni non sono univoche e non sono estranei, discriminazioni intenzionali a parte, che pure esistono, radici culturali e sociali che di fatto penalizzano le donne. Tra le spiegazioni, che conducono ai risultati che abbiamo visto, si possono enumerare: percorsi di studi diversi e minore propensione delle donne per le carriere tecniche, le più ricercate e meglio pagate dal mercato del lavoro. Per esempio, stare, oggi, lontano dall’Intelligenza Artificiale, come dalle energie verdi, vuol dire esporsi ad ulteriori discriminazioni nei prossimi anni; il maggiore ricorso, soprattutto in caso di maternità, anche per la carenza di servizi all’infanzia adeguati, al part-time; assenza dal lavoro, sempre per maternità o altre necessità di cura familiare, per periodi più lunghi con ripercussioni sulle opportunità di carriera. Aiuterebbe, in questo caso, una maggiore condivisione delle faccende domestiche, visto che le donne italiane passano in media oltre 5 ore al giorno ad occuparsi del lavoro di cura, quando gli uomini si fermano sotto le 2 ore e minore disponibilità delle donne ad allontanarsi dal luogo di residenza per rincorrere offerte migliori. Le leggi anti discriminatorie, che pure sono state emanate anche in Italia (L. 120/2011 prima e L. 160/2019 poi), aiutano ma non possono risolvere completamente le differenze di genere. Un esempio: per effetto della normativa, nel 2022, si è raggiunta la percentuale record di donne nei CdA delle società quotate, toccando il 42.9%. Senza dubbio un buon risultato. Ma, scrive Gender Gap Report 2023 dell’Osservatorio Job Pricing, è un dato un tantino fuorviante, perché la stragrande maggioranza delle donne inserite nei CdA svolge prevalentemente un ruolo consultivo, mentre sono molto poche quelle con incarichi esecutivi: appena una su sei. In conclusione, di fronte al calo demografico in cui ci troviamo, anche a Rimini, lasciare fuori dal mercato del lavoro così tante donne (per arrivare al tasso di occupazione di Svezia e Norvegia, ma anche della Germania, dovremmo creare 15-20 mila nuovi posti di lavoro per donne) non è solo una ingiustizia, ma una perdita netta per l’occupazione, la crescita personale e lo sviluppo locale. L’OCSE, l’Organizzazione degli stati più sviluppati, stima che, un aumento dell’occupazione femminile, ma anche dell’istruzione, potrebbe portare ad una crescita pro capite del Pil italiano del 3.5% entro il 2050. Vale anche per Rimini.