Andar per mare in barca a vela, è risaputo, non è mica così facile. Bisogna che chi governa la “bagnarola” sappia come si stramba, come si cazza la randa, come si usa il boma… insomma, sappia il fatto suo. Soprattutto se l’imbarcazione è grande e se l’equipaggio è formato da più persone. Ecco perché spesso proprio la vela viene utilizzata come metafora perfetta della vita. In modo particolare per quelle persone che devono imparare a governarla la propria vita, sapendo andare contro vento, raggiungendo quel senso di responsabilità che ogni buon skipper possiede. Ed è un po’ questo il senso del progetto Vela dò io la Vela, frutto della collaborazione tra il Centro per la Giustizia Minorile della regione Emilia Romagna, l’Unione italiana vela solidale, la Fondazione Tender To e la Cooperativa Atlante di Rimini: recuperare attraverso l’uscita in mare, tutti quei ragazzi che sono finiti dietro le sbarre per aver commesso i reati più disparati. Nello specifico, tutti i giovani inseriti nella Comunità per minori di Bologna. Il progetto è stato presentato a Palazzo Garampi proprio perché da Rimini, il prossimo, un equipaggio di cinque ragazzi, due sinti, un siciliano, un egiziano e un albanese, parteciperà a bordo dell’imbarcazione Gran Pesto, al campionato d’inverno che si “navigherà” nelle domeniche di febbraio. Sia chiaro, non è che vadano allo sbaraglio, pochi mesi fa, insieme ai loro educatori, hanno portato il brigantino-goletta “Nave Italia”, una barca di 61 metri, da Venezia ad Ancona.
“L’obiettivo – ha spiegato il direttore del Centro di Giustizia Minorile di Bologna, Giuseppe Centomani – è prendere in carico minori in condizioni di disagio, superare l’etichettamento e produrre l’effetto di dare loro sensazioni di utilità. Vogliamo che questi ragazzi capiscano gli errori che hanno commesso, capiscano l’importanza di dare un senso alla propria vita, di diventarne i timonieri e soprattutto capiscano come il lavorare insieme diminuisce le difficoltà”.
Francesco Barone