Integrazione, non è strada a senso unico

    “L’integrazione non è una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua ‘ricchezza’, cogliendone i valori della cultura”. Lo ha affermato l’arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, al XVI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati, che si è svolto nei giorni scorsi a Roma. “La vera integrazione – ha sottolineato mons. Marchetto – si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale. Ambedue le parti, comunque, devono essere disposte a farlo, giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco”. L’arcivescovo è critico contro un tipo di inserimento più simile all’ “assimilazione”, che “rappresenta in fondo un impoverimento anche delle società d’accoglienza, perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato”. “Senz’altro i migranti devono fare i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino – ha detto -, ma tale processo deve rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé”.
    D’altra parte, ha precisato mons. Marchetto, se però il migrante “non si apre alla realtà più vasta della società d’approdo, corre il pericolo di formare, insieme agli altri suoi simili, un ghetto, con relativa emarginazione”. Il migrante è quindi chiamato a “compiere i passi necessari all’inclusione sociale, quali l’apprendimento della lingua nazionale e il proprio adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata”. Nel suo intervento l’arcivescovo ha poi messo in guardia dal pericolo del “brain drain” (la fuga dei cervelli) di lavoratori altamente qualificati da Paesi meno sviluppati ai Paesi ricchi: questo impedisce anche la eventuale trasmissione del know-how ai connazionali in patria. Mons. Marchetto ha concluso citando l’enciclica Caritas in veritate e ricordando che “l’autentico sviluppo proviene dalla condivisione dei beni e delle risorse, nella ricerca di un nuovo ordine economico internazionale che contempli una più equa distribuzione dei beni della terra”.

    L’intervento di Zamagni
    “Nel mondo attuale – ha affermato l’economista Stefano Zamagni – esiste la cosidetta ’sindrome di Johannesburgh’ secondo la quale i ’ricchi’ devono difendersi dai ’poveri’, riducendo od ostacolando i loro spostamenti”.
    Si verifica un “paradosso sconcertante” per il quale “la globalizzazione economica, mentre accelera e magnifica la libertà di trasferimento di beni e capitali, ostacola i movimenti delle persone”. Una “nuova retorica” si diffonde a livello culturale: “i migranti come responsabili delle crisi sociali e delle nuove paure collettive e soprattutto come minaccia seria alla salvaguardia delle identità nazionali”.
    Per questo motivo, ha aggiunto Zamagni “il tema della migrazione viene legato a quello della sicurezza”.
    Tutto questo, insieme agli errori compiuti nelle politiche dei governi, “è frutto di ignoranza cioè di mancata conoscenza del fenomeno migratorio”. Si ritiene, per esempio “che occorra bloccare le frontiere dei nostri paesi all’immigrazione e promuovere piuttosto lo sviluppo nei paesi di partenza perché questo arresterà il fenomeno”.
    Ma “se è vero – ha sostenuto Zamagni – che è importante investire nello sviluppo dei paesi poveri, gli studi dimostrano però che lo sviluppo produce l’effetto di far diminuire le migrazioni solo dopo un certo tempo. Nella prima fase di questo processo, al contrario, la pressione migratoria aumenta”.
    Anche “la tradizionale distinzione tra paesi d’origine, di transito e destinazione non ha più senso”. “I paesi del bacino del Mediterraneo – ha spiegato Zamagni – ne sono un esempio: il nord Africa, infatti, da area di partenza è diventata di transito e si appresta a diventare area di destinazione. C’è un fenomeno nuovo, non verificatosi in precedenza, della circolarità dell’emigrazione nell’arco di 10-20 anni”.
    Una cosa risulta chiara: “il fenomeno migratorio – ha concluso Zamagni – per tutti questi motivi non è più gestibile al livello dei singoli paesi. Occorre affrettare la costituzione di una autorità per le migrazioni a livello mondiale che abbia il potere di emettere delle regole e di farle rispettare in caso di inadempienza dei singoli stati”.