In fuga dalla guerra: destinazione Rimini

    “Mio padre lavorava per il Governo e per questo motivo è stato ucciso, davanti a me, senza pietà”.
    “Mio padre e mio fratello erano giornalisti. Per questo hanno ammazzato mio fratello e mio padre è stato esiliato dal Paese”.
    Io e mio fratello maggiore eravamo proprietari di un cinema, a Mogadiscio. Un giorno alcune persone di Al- Shabab sono entrate nel cinema e, con un fucile, hanno ucciso mio fratello. Io sono scappato saltando dalla finestra”.
    Abdul ha 16 anni, Alì e Ayaan ne hanno pochi di più. Come loro tutti i cittadini somali nati dopo il 1991, non hanno conosciuto altro che guerra e disoccupazione. Da 20 anni la Somalia è in guerra civile e ancora oggi, a Mogadiscio, continua la lotta tra le forza governative – appoggiate dalla missione dell’Unione africana – e i ribelli di Al-Shabab (gioventù – gruppo insurrezionale somalo alleato con Al Qaeda attivo all’interno e fuori Mogadiscio, che conduce attacchi contro il governo).
    Adesso questi tre ragazzi sono a Rimini e vivono grazie al sostentamento del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), sistema nazionale che a Rimini è coordinato dalla Provincia, in collaborazione con le strutture di accoglienza.
    Il 1° luglio anche loro hanno fatto festa – insieme ai connazionali – nel salone della Caritas diocesana. Cinquantuno anni fa, infatti, la Somalia diveniva paese indipendente.
    Anche se in questo momento non abito in Somalia – racconta Abdul – so per certo che è molto difficile sopravvivere, perché c’è uno stato di terrore, di chiusura e di censura, oltre ogni limite.
    Non esiste democrazia, nessuna libertà. Io ero proprietario di un cinema, insieme a mio fratello maggiore. La nostra attività era l’unica fonte di sostentamento della nostra famiglia. Alcuni membri di Al- Shabab, dopo aver ucciso mio fratello, sono venuti a casa mia, ma io non ero lì; sapevo che mi avrebbero cercato e così – per non morire in loro mani – sono stato costretto a scappare dal mio paese. Da solo. Mia moglie e mia madre vivono ancora in Somalia
    ”.
    Secondo l’Onu sono 2,4 milioni i somali che hanno bisogno di aiuto. Fra questi vi sono i profughi interni (circa 400mila) dislocati in aree che si trovano sotto il controllo di Al-Shabab. Circa 600mila somali sono rifugiati nelle nazioni vicine, in particolare in Kenia dove – secondo i dati Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) – solo negli ultimi sei mesi, hanno cercato sicurezza 61mila persone.
    Il paese versa in uno stato di grave siccità, la peggiore degli ultimi 60 anni, che ha lasciato la popolazione priva di qualsiasi mezzo. Carenza di acqua che va ad aggiungersi al problema della malnutrizione, già enormemente diffuso. Un altro problema che colpisce la Somalia, paese martoriato dalla guerra civile, è quello dei bambini soldato. “Poiché – continua Abdul – molti bambini sono orfani, per sopravvivere, sono costretti a brandire le armi da piccoli: non possono fare altrimenti. Vengono manipolati dai gruppi armati che li portano a pensare che l’arruolamento è l’unica salvezza per il futuro”.
    L’unirsi alle violenze e l’arruolamento nei gruppi armati che si contendono il potere è uno dei modi messi in campo dai giovani per resistere alla situazione nella quale versa la Somalia. Altri trovano via d’uscita nelle droghe, altri ancora tentano di salvarsi imbarcandosi in pericolosissimi viaggi in mare verso l’Europa. “Il mio viaggio dalla Somalia all’Italia è stato a dir poco doloroso – racconta Abdul – dalla Somalia sono andato in Kenia, poi in Uganda. Da lì in Sudan. Poi ho attraversato il deserto fino alla Libia. Tutte queste tappe le ho percorse in automobili che avevano una portata massima di 15 persone. Noi nell’auto eravamo in 40”.
    Abdul è rimasto due anni in Libia perché, senza alcun motivo, è stato preso e portato in prigione. “Le carceri sono molto critiche – continua – non c’è cibo, non ci sono medicinali, non ci sono servizi. È molto facile contrarre malattie e infezioni. Si dorme per terra, senza letto né lenzuola. In ogni cella ci sono anche 50-60 persone, tutte stipate insieme. Dopo due anni, lasciate le carceri libiche, ho avuto la possibilità di imbarcarmi per l’Italia. Sono arrivato a Lampedusa il 9 aprile del 2011. Dopo due giorni mi hanno portato ad Agrigento, poi a Catania, da lì a Bologna, e infine a Rimini”.
    Abdul ha fatto richiesta di documenti al Governo italiano e ha ottenuto un permesso di tre mesi che però – a seguito delle leggi vigenti – non gli consente di lavorare. “La mia famiglia è rimasta a Mogadiscio: i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle, in più anche mia moglie. Sto cercando di aiutarli ma non è facile. Mi mancano tutti e ho fatto richiesta perché possano raggiungermi”.

    Letizia Rossi