Home Attualita Il Tempio nell’occhio dei russi

Il Tempio nell’occhio dei russi

Riscoprire, guardare, appassionarsi ad un monumento che è anche un simbolo di una città e di un territorio, attraverso lo sguardo e il pensiero di intellettuali stranieri. È l’obiettivo dichiarato che si è posto “Il Tempio Malatestiano oltre l’Italia. Scritti forestieri tra Ottocento e Novecento”, il ciclo di incontri, nato in collaborazione tra Fondazione Cassa di Risparmio, Assessorato alla Cultura e Diocesi di Rimini. Due le particolarità di questa “rassegna”: gli sguardi sul Tempio che arrivano da lontano, siano essi di scrittori, artisti e intellettuali provenienti dai paesi anglofoni, dalla Germania o dall’est Europa; e il Duomo di Rimini come sede degli incontri.
Molti studiosi e critici d’arte hanno solcato le lande di Sigismondo negli ultimi due secoli indagando la natura spirituale, estetica – per alcuni persino esoterica – del manufatto architettonico simbolo del Rinascimento riminese. E proprio da qui partono le analisi: dall’innesto dell’involucro albertiano sulla facciata gotica della precedente Chiesa di San Francesco; dalle decorazioni interne di Agostino di Duccio; dalle pitture di Giotto e di Piero della Francesca; dalla brama di grandezza del Signore della città.
I russi sono stati i protagonisti della terzo convivio artistico-letterario sul Tempio (venerdì 15 novembre) grazie all’intervento di Alessandro Giovanardi, il riminese docente di Arte sacra e di iconografia e iconologia cristiane presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Rimini, e alle sue riflessioni su Vladimiro Zabughin, storico e filologo di San Pietroburgo.

Un’attenzione russa
Gli studi del pensatore russo lo portano in Italia venticinquenne nel 1905, grazie ad un borsa di studio dell’Accademia imperiale delle Scienze, e lo rendono presto italiano di adozione: da ortodosso divenne cattolico, scrisse gran parte delle sue opere nella lingua del nostro paese, prese moglie italiana, e sulle Alpi trovò la morte ancora giovane per via di un incidente. “La sua attenzione fu dedicata ai temi simbolici ed iconografici – spiega Giovanardi -, facendosi mediatore in Italia della cultura storico-filologica e della ricerca estetico-filosofica del proprio paese”.
Lo studioso russo riesce a dare un contributo innovativo all’apparato interpretativo sul Tempio Malatestiano: “Ne offre una lettura lontana da «divagazioni romanzesche e iperboli letterarie» e soprattutto nuova rispetto ai suoi tempi”. Giovanardi parla del desiderio di Zabughin di andare oltre la visione del Tempio quale “ricettacolo di figure pagane e di adoratori di demoni”, come era visto dai suoi contemporanei, primo fra tutti Papa Pio II che accusò Sigismondo Malatesta di essere “uomo mostruoso e rotto ad ogni spregevole vizio”. L’edificio votivo della città non è visto solo come un rifacimento dell’antichità romana, perché Leon Battista Alberti “seppe adattare la sua architettura ai canoni del suo tempo”.

Il Tempio come officina
Un opera estremamente contemporanea ed espressione dello spirito umanistico dell’epoca che ritrova nei simboli dell’antichità degli elementi da rielaborare, come in un’officina dove il nuovo si mescola all’antico per dare vita ad una impianto stilistico con identità propria. Giovanardi cita un passaggio chiave di Storia del Rinascimento Cristiano di Zabughin del 1925 a proposito della trasformazione della Chiesa di San Francesco di Rimini nel Tempio dei Malatesta: “Leon Battista degli Alberti è, come tutti sanno, padre del Rinascimento architettonico, inteso come sistema ben codificato. Però, se le teorie, esposte nel suo Trattato dell’arte del costruire, sono rigorosamente vitruviane, la pratica è assai meno intransigente di quanto si creda. L’Alberti è nettamente «romano», ossia massiccio, saldo, ben piantato; è robusto quanto il Brunelleschi cercava di essere leggiadro. Con lui sorge un nuovo concetto di chiesa: non più l’auditorium nudo, sonoro, luminoso, come lo volevano gli ordini mendicanti; non più il Duomo-simbolo di un Comune rapidamente arricchito: ma il Tempo-segnacolo di Maestà, intesa alla romana. Tempio votivo che un grande della terra dedica alla Maestà di Dio, perché questo lo protegga e lo irradi con i rutilanti fulgori della sua gloria. Tempio Malatestiano di Rimini, tempio de’ Gonzaga a Mantova. Tempio classico e monarchico, contrapposto al Duomo gotico e repubblicano. Volle la Provvidenza che il monumento più celebrato di codesta arte aulico-umanistica fosse ricostruzione di un’umile fabbrica francescana: la povertà «pusilla» messa al servizio della ricchezza superba! Volle ancora la Provvidenza che cotale opera di ricostruzione rimanesse tronca, e che dopo un periodo di splendore dinastico il Tempio, rinnovato dal genio dell’Alberti, tornasse in potere del modestissimo gusto provinciale di una povera frateria mendicante”. Non vengono rinnegate le contraddizioni nell’opera albertiana dovute, secondo Zabughin, alla sua vasta cultura che fa riferimento a diversi poli geografici: “Romano per gusto e per tendenze egli è veneziano per educazione”.

Le contraddizioni albertiane
Provocatoria è la descrizione dell’esecuzione albertiana: “L’Alberti non si accontenta di così poco; vuole inchiodare sulla facciata del suo tempio ideale di superba maestà un vero arco trionfale, quasicché la soglia sacrata dovesse venir superata non già da modesti fedeli a capo scoperto e pedoni, ma dal cocchio aureo di un conquistatore. Beninteso, il povero arco trionfale accecato dal contatto con la facciata liscia, rimane privo di scopo e quindi di vera bellezza, specie quando gli si oppone violentemente una porta meschina, scavata nelle viscere di un fornice pomposo”. Giovanardi non si trova a condividere questo giudizio estetico, però sottolinea l’efficacia dell’analisi sull’iconografia presente all’interno del Tempio. Le sculture di Agostino di Duccio erano “comunemente citate quali esempi di aberrazioni paganeggianti, eppure la scelta dei soggetti è rigorosamente medievale”, scrive Zabughin. “La maniera dell’esecuzione di codesti rilievi ondeggia tra il gotico e il barocco. Nelle figure un po’ flosce, dalle vesti ondeggianti, dallo sguardo infantile v’è molto realismo, molto studio di verità e di vita, parecchia stilizzazione, ma relativamente poca classicità e niente «paganesimo». Ciò almeno se per «paganesimo» intendiamo la sfrenata corsa ai godimenti della vita, di sopra e al di fuori della morale cristiana”.

Mirco Paganelli