Home Editoriale IL SOGNO Se il terremoto portasse la pace

IL SOGNO Se il terremoto portasse la pace

Sono oltre 5.000 le vittime del tremendo terremoto (in verità più d’uno) che ha colpito Turchia meridionale e il nord ovest della Siria con magnitudo 7,8 sulla scala Richter. Molti ancora i dispersi. La gente cerca di rispondere come può alle grida di aiuto che arrivano da sotto le macerie. Soprattutto in Siria la situazione è drammatica per le conseguenze di quella guerra infinita.

Ad Aleppo, ormai rasa al suolo (qualcuno parla della “seconda morte di questa città martire”) le chiese hanno aperto le porte per ospitare i terremotati, molti hanno dormito in terra e sulle sedie. La parrocchia latina ha servito 2.000 pasti solo nella prima giornata. E sale il rischio di una nuova epidemia di colera.

Tutto il mondo dichiara di volersi mobilitare per aiutare queste popolazioni. Da subito la Cei ha destinato, per un primo aiuto, 500mila euro, tratti dai soldi dell’8×1000. Fra i tanti che hanno dato la loro disponibilità anche Ucraina e Russia, come pure Israele, nemico acerrimo della Siria e tanti, che in questo frangente, hanno dimenticato i dissaporipolitici con la Turchia di Erdogan.

Ma il terremoto ci svela anche la nostra ipocrisia. Se questa immane tragedia porta un insegnamento, sta proprio nell’assurdità di quello che l’umanità vive quotidianamente, quando ogni genere di conflitti la fa da padrone. C’è da chiedersi infatti che differenza c’è fra il piccolo Hassan che è sepolto nelle macerie di Gaziantep e Pavlo morto in cantina dopo un bombardamento a Kramatorsk nel Donbass?

Perché quel giusto sentimento di solidarietà che nasce sempre quando il dramma ci mette di fronte al nostro limite non è prassi quotidiana? Perché giustamente tutti corriamo a soccorrere oggi Mehmet, Ali, Mustaf, Ahmet, Murat, Ibrahim, Hüseyin e le stesse persone le lasciamo marcire nei campi profughi della Turchia oppure permettiamo che Gebre, Akia, Caka, Babatunde muoiano affogati nel Mediterraneo? Sono domande che non ci poniamo, perché ci siamo abituati al male. Il male ci è così familiare che il bene ci sconcerta e, commutandolo di segno, lo assimiliamo ai modelli negativi che ci sono noti. Lo osserviamo nelle reazioni più comuni di fronte al volontariato. La tendenza oggi è di interpretare l’altruismo come controfigura dell’egoismo, la generositàcome gratificazione di chi la esercita, la solidarietà come aiuto provvidenziale a se stessi.

Pensiamo all’atteggiamento assurdo di questo governo contro le ONG. Le navi costrette ad un solo intervento umanitario obbligate a scali lontani come Ravenna o La Spezia “per scaricare il peso a Lampedusa”, come se non ci fossero porti intermedi in Puglia, Molise, Abruzzo e Campania, Lazio… Ma può esserci logica nell’egoismo dell’uomo o delle nazioni, quando uno dei Paesi più ricchi del mondo quanto a materie prime, come la popolazione del Congo, è ridotta alla miseria per una guerra continua che le multinazionali degli Stati ricchi finanziano dagli anni ’90 e che ha prodotto almeno 6 milioni di morti, quanto l’esecrato sterminio nazista nei campi di concentramento? Ce lo deve gridare in faccia un uomo di 86 anni, quando in realtà lo sappiamo tutti da sempre?