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Il Sigismondo che pedala sempre curioso

L’INTERVISTA. Storico e saggista di fama, Stefano Pivato riceverà l’onoreficenza di Rimini

Questa volta è finito dall’altra parte della barricata. E con pieno merito. Da assessore alla Cultura del Comune di Rimini, tra il 1999 e il 2009, Stefano Pivato di Sigismondo d’Oro ne ha consegnati parecchi. Ora tocca a questo 73enne nato a Gatteo a mare ma riminese d’adozione da sempre (nella foto con Andrea Camilleri).

Finalmente?L’onorificenza è del tutto inaspettata. Non ho mai pensato di poter ricevere il Sigismondo d’oro per un motivo molto semplice: ho fatto parte dell’Amministrazione comunale per dieci anni in qualità di assessore alla cultura.
Ritenevo quindi che potevano esistere riserve per possibili conflitti di interesse. Forse a Palazzo Garampi qualcuno ha ritenuto che quelle riserve siano cadute in prescrizione”.

Dica la verità, Pivato: cosa le è piaciuto della motivazione del sindaco Sadegholvaad? In fondo l’ha definita un curiosone… “Quello della curiosità è il «vizio» dello storico. Farsi domande, interrogarsi, esprimere dubbi di fronte alle granitiche e un po’ goffe certezze di certa politica fa parte del mestiere. Soprattutto di uno storico sociale abituato a scandagliare le storie minime, i dettagli apparentemente insignificanti, le pieghe della storia”.

L’accostamento al Festival Cartoon Club le pare azzardato?
Nei miei studi ho più volte indagato il fumetto come strumento di propaganda politica nel corso del Novecento. Il fumetto ha accompagnato spesso le campagne elettorali condotte a suon di strisce. Su un altro versante pensiamo a personaggi che hanno fatto la storia della cultura italiana come Gianni Rodari che al fumetto ha affidato l’educazione di generazioni di bambini.

Professore ordinario di Storia all’Università di Urbino e Rettore Magnifico (2009-2014), assessore alla Cultura, direttore del Centro sammarinese di studi storici della Università degli studi di San Marino, membro di una vasta schiera di comitati scientifici e prolifico autore. Dove ha trovato il tempo? E dove lo trova ora?
E’ una questione di organizzazione del tempo. E, soprattutto, di una selezione degli impegni guidata da un mantra evocato dal protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino: «La più consistente scoperta che ho fatto è che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».  Ovviamente ho avuto la fortuna di esercitare un mestiere che mi ha concesso la libertà di scegliere.

Rimini candidata capitale della cultura 2026. Ha le carte in regola? Quale può essere quella vincente? Quale accento metterebbe il prof. Pivato se fosse chiamato in causa?
Rimini ha le carte in regola soprattutto per come ha saputo, nell’arco dei decenni, ricostruire il suo patrimonio artistico e culturale. La nostra città ha avuto nel corso della seconda guerra mondiale una delle percentuali più elevata di tutto il paese di distruzioni a causa dei bombardamenti. E in quelle distruzioni c’erano capolavori del Rinascimento come il Tempio Malatestiano e gioielli dell’Ottocento come il Teatro Galli.  Sia pure in tempi diversi quei due monumenti sono stati restituiti alla città con una sapiente opera di ricostruzione. E’ un elemento che non va sottovalutato.

Il suo ultimo libro è dedicato alle colonie, un tema che sta tornando di stretta attualità. Ha tirato lei la volata o ha seguito la scia?
Si tratta di una serie di casualità, come se il problema fosse venuto a galla all’improvviso di fronte a un appuntamento che non può essere più rinviato: quello del recupero di edifici che, in certi casi, sono veri e propri monumenti. A proposito della candidatura:  purché si rinunci ad avere la puzza sotto i naso alcuni edifici (penso alla Novarese, alla Bolognese o alla Murri) fanno parte a pieno titolo del patrimonio artistico della città. Sono veri e propri gioielli della cultura balneare.

A proposito di biciclette. Alle due ruote ha dedicato tante ricerche e tanti volumi (da Storia sociale della bicicletta a La felicità in bicicletta). È un appassionato o solo uno studioso?
Prevalentemente uno studioso. Per me studiare il mondo della bicicletta ha significato tornare all’ infanzia. Ho vissuto i primi anni della mia vita in un luogo isolato: pochi amici, nessun oratorio per dare quattro calci a un pallone. Normale che la mia fanciullezza sia trascorsa con un gioco di natura individualistica come la bicicletta.  A chi mi chiede la sensazione che provoca la bicicletta faccio leggere un brano di Thomas Bernhard, Un bambino, nel quale si descrive la felicità di un adolescente durante una discesa a folle corsa con la bicicletta sottratta al padre con l’andatura «sotto canna». Una allegria indescrivibile.

Bartali è un mito non solo del pedale ma anche della storia moderna italiana. Lo ha affrontato in due volumi, e con due tesi opposte. Il grande ciclista aiutò i perseguitati durante la Shoah? Sì, scrisse nel libro Sia lodato Bartali (2018), No, nel libro L’ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata (2021). Quindi?
Quindi occorre citare almeno un terzo libro: Il caso Bartali e le responsabilità degli storici. Quel testo, curato da me, raccoglie il parere di sei storici (non solo italiani) sulle polemiche seguite a L’ossessione della memoria. Senza che nessuno avesse letto il libro, visto che le polemiche sono scoppiate prima della sua uscita in libreria grazie a una intervista sul «Corriere della sera», sono stato accusato di antisemitismo, di antisionismo e persino di essere un negazionista.  Per accreditare il salvataggio degli ebrei si è persino affermato che era (è) in corso il processo di  canonizzazione di Bartali, una circostanza smentita dalla Congregazione delle cause dei santi.  Il salvataggio degli ebrei da parte di Bartali è montato attraverso una serie di «si dice» e «sentito dire» oltretutto – e curiosamente – dieci anni dopo la morte del grande campione. Non esiste un solo documento, neppure negli archivi segreti del Vaticano, che possa dimostrare l’avvenuto salvataggio.  Documenti probanti non esistono neppure negli archivi dello Yad Vashem. Si tratta in realtà di una leggenda nata nell’ambiente dei tifosi e si sa che, per dirla con una battuta di Massimo Troisi, che «Quando la leggenda incontra la storia vince la leggenda». Insomma, una storiografia da Bar Sport. La leggenda è negli anni cresciuta fino ad accreditare prima 800 ebrei salvati per arrivare poi (secondo il calcolo dei familiari) a 4-5000. Dopo le polemiche suscitate dal mio libro lo Yad Vashem ha ammesso, con una dichiarazione ai giornali, che sul caso Bartali ci sono state delle «esagerazioni» e che gli ebrei salvati dal campione sono «forse una trentina». Mi sembra una bella ridimensionata.
In un primo momento sono stato affascinato anch’io dalla leggenda. Fino a quando uno storico come Michele Sarfatti, fra i massimi esperti mondiali della Shoah e già direttore del Centro di Documentazione Ebraica, non ha iniziato ad avanzare dubbi sulla veridicità della vicenda. Seguendo gli indizi di Sarfatti ho esteso la ricerca per arrivare alla conclusione che si tratta di pura invenzione. Anzi la considero un vero e proprio sgarbo fatto a una figura esemplare come Bartali.

In realtà non ha solo spinto sui pedali. Il primo testo di successo, I terzini della borghesia, ormai è un classico di storia del calcio. Però l’ultima analisi che ha dedicato al pallone riguardava il tifo. La parte malata dello sport?
Il tifo è sempre stata una «religione laica» che non ammette contradditori e contrapposizioni. La primaria regola dello storico, cioè il dubbio, è per me una regola di vita.

Segue la Rimini Calcio?
Raramente mi sono esaltato per una squadra di calcio. Fino a un certo punto ho tifato Milan. Poi quando qualcuno ne è diventato presidente in maniera strumentale  per diventare poi presidente del Consiglio ho lasciato perdere. E’ uno sport che non mi appassiona. Trovo che i campanilismi siano deleteri.

I suoi interessi di studioso si sono concentrati, negli anni, sui comportamenti collettivi degli italiani e sull’immaginario politico nel Novecento. Ha senso oggi parlare di cultura alta e cultura bassa? E la musica, da che parte sta?
Le cito solo due suoi libri: Bella ciao e La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana.
Appartiene, nelle sue espressioni più elevate come quelle di certo cantautorato, alla cosiddetta «cultura bassa» ma spesso ha saputo interpretare il presente ( e in certi casi il passato) con maggiori sfumature della cosiddetta cultura alta. Anzi, a fornire chiavi di lettura che talvolta gli storici non hanno saputo suggerire.

A proposito di Bella ciao. Pansa e Morrone, tra gli altri, sono concordi nel ritenere che non venne mai cantata nella Resistenza.
É fuor di dubbio che oggi, nella memoria degli italiani la Resistenza viene identificata con Bella ciao. Nei raduni partigiani, nei cortei dei giovani no – global e in quegli degli studenti quella canzone rimanda non solo al ricordo della lotta partigiana, ma richiama altresì un più ampio concetto di libertà.
Ancorché siano varie e spesso discordanti le versioni sulla paternità della canzone,  la circolazione di Bella ciao durante la Resistenza risulta circoscritta alle zone di Montefiorino, nel Reggiano, e dell’alto bolognese, oltre a quelle delle Alpi Apuane e del Reatino. Pochissimo cantata in zone del Nord Italia come Piemonte, Lombardia e Friuli.
In ogni caso al di là delle dispute attorno alle origini e alla circolazione del canto la sua popolarità risulta ben più ampia nel dopoguerra che non durante la Resistenza.
Il canto più diffuso durante la Resistenza è Fischia il vento,  ritenuto, soprattutto per la melodia che rinvia alla tradizione russa, troppo «comunista». Per cui in quel clima di avvicinamento fra le sinistre (in particolare il PSI) e l’area di governo si preferisce zittire quel canto e sostituirlo con Bella ciao. E questa canzone, di autore ignoto, è divenuta negli anni una sorta di inno alla libertà: risuona nella guerra civile siriana; è intonata dagli indipendentisti curdi; nelle proteste turche del 2013 contro il governo di Erdogan diventa un inno dei dimostranti; a Barcellona si canta nei luoghi pubblici per sostenere la causa indipendentista della Catalogna; in varie realtà del Sudamerica esprime il disagio contro la mancanza di democrazia come in occasione della rivolta dei cileni nei confronti del presidente Sebastián Piñera; all’indomani dell’invasione dell’Ucraina nel 2022 diventa uno degli inni dei resistenti ucraini. E a partire dal 2012 le note di Bella ciao accompagnano l’inno ufficiale del  Fridays for future, il movimento sui cambiamenti climatici promosso da Greta Thunberg.

Fellini: Rimini si è riconciliata con il suo grande regista?
Ma direi che non è mai facile il rapporto dei grandi personaggi con le loro città. Più un personaggio è grande meno sopporta di stare all’ombra di un campanile. Rimini ha spesso balbettato nel confronti di Fellini. Anzi, quando il grande regista era ancora vivo la sua città natale ha compiuto delle vere e proprie «messe in scena», malandrine e piratesche. Una su tutte: la questione della casina sul porto.
Ho trovato spesso sterili le polemiche che in questi ultimi anni hanno accompagnato la figura di Fellini.  Nel vezzo di polemizzare contro uno dei grandi del Novecento ci vedo talvolta l’intento di pubblicizzare chi quelle polemiche le suscita. Fortunatamente Fellini è talmente grande da sopportare anche meschinità e diatribe speciose. Credo che se Fellini rinascesse aggiungerebbe una pagina al suo Libro dei sogni e in questa pagina raffigurerebbe sé stesso nell’atto di spernacchiare quanti, nel suo nome, sollevano polemiche spesso pretestuose.

Tonino Guerra ha lasciato tante tracce, anche quando era in vita, per Rimini, il territorio e l’amata Valmarecchia. Secondo lei, amministratori, politici e cittadini le stanno seguendo o le eludono?
Ho l’impressione che alcuni amministratori citino compiaciuti Tonino Guerra senza averlo neppure letto. Molti dovrebbero meditare I sette messaggi al sindaco del mio paese e agli altri. E’ una sorta di decalogo del buongoverno del paesaggio e, forse, eviterebbero cadute nel cattivo gusto.

Lei è sicuramente al lavoro su un nuovo libro.
Sto per ultimare la stesura di Emozioni e politica. Una storia d’Italia , un saggio che prova a dimostrare come la militanza politica si sia nutrita non tanto o non solo di letture ma, per l’appunto di emozioni. E’ nel corso della Rivoluzione francese che la creazione di miti, simboli e liturgie che fanno leva sulle emozioni consente alla gente comune e agli analfabeti di partecipare attivamente alle religioni laiche che si affermano nel corso dell’Ottocento e del Novecento: dalle religioni risorgimentali al socialismo e al fascismo. Le emozioni si rivelano necessarie alla realizzazione di un progetto perché sono in grado di suscitare un sentimento di amore nei confronti di una causa e di un obiettivo.

A chi dedicherà il Sigismondo d’Oro?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.  Almeno per ora.

Rimini compare nel titolo di ben 631 brani, dal pop alla dance al cantautorato. A cosa deve la sua propensione da musa ispiratrice per le sette note?
Tempo fa conversando con Francesco Guccini gli chiesi da dove aveva tratto l’ispirazione per la citazione di Rimini in una delle sue canzoni, Inutile ( «A Rimini la spiaggia com’è vuota, quasi inutile di marzo…»). «Per la verità» – mi rispose Guccini – all’origine nel testo c’era Cesena ma al momento della registrazione un membro della band mi fece notare che a Cesena non c’è il mare e allora …).
Aneddoti a parte la vacanza, il tempo libero e il divertimento nelle sue varie forme sono il carattere «originario» di Rimini: logico la nostra città abbia una colonna sonora che poche altre realtà possono vantare. Rimini è sinonimo di spensieratezza: naturale che quello stato d’animo sia accompagnato da una canzone.

Lei è stato per dieci anni assessore alla cultura. Vuole dirmi quale è stata la sua maggiore soddisfazione e, all’opposto, la più grande delusione?
La soddisfazione più grande: quando la Giunta guidata da Alberto Ravaioli ha varato, dopo anni di polemiche, il progetto del Teatro Galli nella versione «come era e dove era». Il disappunto maggiore: allorché, in seguito  a un piccolo diverbio con la direttrice di un quotidiano locale, fui per mesi bersaglio di polemiche feroci nelle quali si profetizzava la non prosecuzione dei lavori alla Domus del Chirurgo. Davvero l’esempio di un giornalismo rozzo e volgare e una ineleganza di stile utilizzata per fini di soddisfazione personale. Naturalmente la Domus si inaugurò di lì a poco (nel 2007) ma le scuse non sono mai arrivate.