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Gianni Fucci, dalla poesia al Rumanz

Scorro le più di duecento pagine della recentissima fatica poetica di Gianni Fucci, scritte in dialetto santarcangiolese, con traduzione in lingua accanto, sempre in ottave. Fucci, uno degli ultimi eroi della poesia dialettale romagnola del ‘900, ha alle spalle un ottimo e vigoroso carnet poetico, che inizia con la prima raccolta del 1981, La mòrta e e’ cazadour, presentato dalla santarcangiolese Rina Macrelli, seguita nel 1989, con introduzione di Franco Brevini, da Elbar dla memòria. Poi via via, in un dipanarsi variato di versi, ne vengono altre che riappaiono qua e là in diverse antologie dialettali, di cui la prima in assoluto è quella di Quondamatteo-Bellosi del 1976, a cui si accosta, tra altre, nel 1995 La Santarcangelo dei Poeti a cura di Paolo Guiducci. Vario e sostanzioso dunque il suo curriculum poetico, cui ora, forse inaspettato, certo non improvviso, s’aggiunge il ponderoso Romanzo, anzi come vuole l’Autore Rumànz. La giusta e antica dizione dialettale, anche facendocela venire a mente, non ci può però riportare alle allegorie medievali sul tipo di Roman de la Rose, e meno ancora, arrivando all’800, ci si può accostare ai romanzi tradizionali dell’epoca, da Scott a Manzoni o De Robertis. Se mai piacerebbe un più attuale ‘900 che, dal Lessico familiare della Ginzburg può giungere, più recente e moderno , alla Lalla Romano del Romanzo di figure, a patto che in quelle “figure” s’incarnino le formelle dialettali di Fucci, in endecasillabi santarcangiolesi, e che così s’incarnano in pensieri ed immagini meditate, brani di storia e impressioni, sentimenti e miti, passioni e memorie, letteratura e poesia, in un ampio documento d’identità ove Rumànz ed autore sono la stessa cosa. E però non importa che la scrittura faccia riemergere i miti ancestrali della Etruria, o perché lo “…intra Tevero ed Arno…” come li canta Dante nell’XI del Paradiso. Né importa quant’egli possa ancora sentire tutto suo quel paesaggio, quella gente, quella storia, così da poter di nuovo intuire, chi sa quando e chi sa come, il rumore degli zoccoli dei cavalli, la violenza stridente delle armi, le urla e le grida sempre più tenui dei feriti della Battaglia di San Romano, come la dipinge Di Dono detto Paolo Uccello, anche lui di Pratovecchio, ove nacque nel 1396. Né importa s’egli voglia re-immaginare, dall’alto della Rocca dei Conti Guidi, a Poppi, l’ampia Piana di Campaldino ove ben si poteva scorgere la memorabile battaglia con le milizie ghibelline in fuga, vinte, Dante presente o no, dai guelfi fiorentini. Tutto è storia, letteratura, epica, ma anche tradizione e memoria familiare, come lo fu poi in epoche ben più recenti la Francia dell’emigrazione. Ma la realtà e il vero, per il Poeta del Rumànz, ormai non più né bimbo né ragazzino, sono e saranno, non tanto o non solo la Romagna con il tradizionale dialetto romagnolo, ma il suo Santarcangelo con il suo personale dialetto, e, insieme, le grotte tufacee, la scalinata regale, la sua Rocca, e poi la Torre campanaria che si scorge fin dalla marina, e le contrade, lo Sferisterio sempre pronto, se mai possibile, per il Gioco del bracciale, e poi, nella pianura, la grande piazza e l’Arco settecentesco in onore e gloria del concittadino Ganganelli, poi papa Clemente XIV. E poi di Santarcangelo la sua gente, quella buona e quella meno buona, ma sempre da ricordare perché sempre tutta parte del Paese e quindi del Poeta e della sua poesia. Ma sopra a tutto, lì, dove una volta c’era una parte del mercato, delle fiere, lì, da sotto quel portico riemerge intatta la memoria del – davvero magico – Caffè Trieste, nato, lo dice il nome stesso, nel ’15, all’inizio della Ia Guerra. Era lì che cominciavano di prima mattina ad arrivare ambulanti, mercanti, fattori, qualche padrone, qualche contadino. Era lì che, pur accostando il Sangiovese all’Albana, vecchi vini di Romagna, poiché c’era il caffè si poteva prendere l’anice, la grappa, forse l’assenzio o solo il Fernet Branca, e fino a una cert’ora i bomboloni e i bigné, fatti lì dai gestori del Caffè Trieste. Venivano anche quelli del paese, e lì le parole, le chiacchiere si accumulavano, s’ingigantivano, e diventavano pensieri, idee, intenzioni, fino a sdipanarsi dentro il buio della notte ove tutto sarebbe rimasto intatto fino a che qualcuno non fosse venuto a prenderle per servirsene. E fu dopo la Guerra, la Seconda, quando tornarono i giovani, e si sentivano pieni di idee nuove, ma anche bisognosi di cose vecchie, quelle del paese, e dovevano riassorbire il tutto, e magari rinnovarlo, ingigantirlo, pur risentendone gli odori, i sapori, tra il gusto del caffè, magari corretto all’anice. Ed eran così ricchi di energie che non bastava più il cielo del paese, tanto che qualcuno non li chiamò più “Quelli del Caffè Trieste” ma quelli del “Circolo del Giudizio”. E di giudizio erano tanti ad averlo, scultori, pittori, ma quelli che facevan più “cagnara” e stavano più insieme lì, al Caffè, eran sempre gli stessi, Nicolini, Pedretti, Baldini e Guerra, che degli altri urlava più forte, e il più giovane che era Fucci. E c’erano anche le donne, che se pur non venivano al Caffè, avevano però il pensiero sempre lì presente, la Rina Macrelli, e con lei Giuliana Rocchi.
Forse senza neanche lo si volesse quel “Circolo” s’allargò in fretta, che lo seppero altrove, anche fuori della Romagna, e venivano da Milano, da Roma, come una volta che partivano i Cavalieri del Re Artù per arrivare chissà come chissà dove a ritrovarsi attorno alla Tavola Rotonda. Non a caso Fucci sotto <+cors>Rumànz<+testo_band> parla di “epica”. Leggetelo quel “E’ Circul de Giudeizi” e quell’epica la troverete così come dev’essere.
Ed è tutto quanto che Gianni Fucci ha donato all’amata Santarcangelo e ai suoi concittadini, e agli amici, quelli del vecchio Caffè, quelli del Circolo, quelli di un tempo rimasti nella memoria, e tutti gli altri. E questo suo romanzo epico, scritto in perfette ottave dialettali, fa venire a mente Enea che deve partire da Troia e fare lungo viaggio fino a poter giungere alla terra promessa per rifondarvi la sua storia, insieme alla sua città, e a quella del suo essere poeta e scrittore insieme.

Grazia Bravetti Magnoni