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Donne, la parità arriverà solo nel 2080

Il prossimo 8 marzo è il giorno dedicato alla donna. Gli uomini auspicabilmente doneranno mimose, tanti rappresentanti, generalmente maschi, useranno frasi di circostanza, ovviamente tutti favorevoli a riconoscere un maggior ruolo all’altro genere, a cominciare dal tema del lavoro.

Ma come stanno realmente le cose?

Nel 2019, l’ultimo anno non contagiato dal Covid, su 149.000 occupati in provincia di Rimini, le donne erano 66.000. Cioè 44 ogni 100. Una percentuale che è rimasta sostanzialmente stabile nel 2020, quando la pandemia ha fatto sentire i suoi effetti, ma questa volta con 4.000 occupate in meno. Stessa sorte, ma da altra posizione, è toccata anche agli uomini. E’ l’effetto di un mercato del lavoro che si è ristretto per tutti.

Nel 2010, le donne apportavano il 43 per cento degli occupati. Come si vede, a distanza di un decennio, le percentuali sono quasi identiche. Significa che in tutto questo tempo, per le donne, è cambiato poco. Meglio: l’occupazione femminile è aumentata, da 58 a 62.000, ma non sono cambiati gli equilibri di genere. Tanto che a questo ritmo la parità di genere sul lavoro si raggiungerà, almeno sul piano dei numeri e delle opportunità, escludendo regressioni, tra circa sessantenni: nel 2080!

Un relativo immobilismo confermato anche dal tasso di occupazione, che indica quanti lavorano per ogni cento che potrebbero farlo. Si scopre così che quello femminile, del 2020, è lo stesso del 2010: le donne occupate sono sempre 55 ogni cento disponibili a lavorare. Lo stesso, ma ad un livello diverso, è capitato anche agli uomini: oggi sono al lavoro il 72 per cento, un decennio prima erano il 73 per cento.

Vuol dire che la pandemia, cristallizzando la partecipazione al lavoro di entrambi i generi, ha anche ingessato la differenza, lasciando che la distanza tra i due tassi di occupazione (maschile e femminile), oggi di 16 punti percentuali, tornasse addirittura indietro. Annullando di fatto, in termini di avvicinamento, le conquiste delle donne degli ultimi anni.

Ma questo tornare indietro in termini di conquiste di parità, non deve farci dimenticare che da sempre le donne di questa provincia, dovuto alla particolare conformazione della sua economia, sono penalizzate da minori opportunità d’impiego, pagato anche meno, rispetto al resto dell’Emilia-Romagna.

Prova ne sia che mentre nel riminese, nel 2020, hanno lavorato 55 donne su cento, in regione sono state 62. Una differenza che è cresciuta, causa pandemia, di due punti nell’ultimo anno, ma già nel 2019 era (la distanza) quasi la stessa del 2010.

Con meno occasioni di lavoro è giocoforza che la disoccupazione, che nel 2020 colpisce 11 donne su cento a Rimini e 7 su cento in regione, sia più alta. Un po’ di colpa è sempre della pandemia, ma non tutta.

In assoluto i principali contenitori di lavoro femminile in provincia di Rimini sono il turismo (alloggio e ristorazione), che stacca tutti, poi a seguire commercio, manifattura, sanità e assistenza sociale, attività professionali, scientifiche e tecniche e istruzione. Più lontano tutti gli altri.

Sono tutti settori in cui, escluso la manifattura, le donne sono la stragrande maggioranza. Purtroppo sono anche i settori dove si guadagna meno, a cominciare dal turismo. Qui una donna percepisce un salario lordo giornaliero di 55 euro, a fronte di 62 euro di un uomo.

Nella manifattura, giusto per fare un confronto, i contratti sono più stabili ed una donna prende una retribuzione giornaliera di 77 euro, a fronte di 102 euro di un uomo. Più del turismo, ma sempre meno di un uomo (dati Inps).

Questo basso livello di impiego femminile, oltre ad allontanare la parità di genere, ha due controindicazioni di cui tenere conto.

La prima chiama in causa la demografia: a Rimini, come sta avvenendo in tante parti d’Italia, la popolazione comincia a scendere, perché la nascite da tempo non coprono i decessi e i saldi migratori (differenza tra chi parte e chi arriva) si vanno assottigliando. Con una popolazione stagnate, quando non in calo, viene meno anche la forza lavoro con cui rimpiazzare quelli che vanno in pensione. Allora è evidente che, data la situazione, non possiamo più permetterci di lasciare tante donne a casa, senza lavoro.

Arriviamo alla seconda controindicazione: nel 2020, su 1.733 giovani laureati residenti in questa provincia, il 56 per cento sono donne. Una maggioranza conquistata già a partire dell’anno Duemila e mai messa in discussione. Quindi è più di un ventennio che abbiamo più donne laureate che uomini. Non offrire opportunità a queste donne vuol semplicemente sprecare risorse importanti, su cui tanto le famiglie quanto la società hanno investito.

Si dirà che le donne scelgono studi umanistici che hanno meno domanda da parte delle aziende. Questo in parte è vero, ma allora sarebbe importante mettere in campo campagne informative, coinvolgendo scuole e famiglie, perché cresca il numero delle donne che scelga di orientarsi verso indirizzi tecnico-scientifici (acronimo inglese STEM: letteralmente Science, Technology, Engineering e Mathematics).

Ultimo, ma non meno importante: perché le donne, soprattutto le giovani mamme, possano lavorare ci vogliono servizi adeguati. Attualmente, operando un confronto col resto della regione, nel solo comune di Rimini mancano, in rapporto alla popolazione 0-2 anni, 400 posti negli asili nido. Poi è assurdo che questi chiudano al 16 del pomeriggio, quando il lavoro si protrae fino le 17-18. Gli asili sono servizi per i bimbi, ma anche per le mamme che lavorano. Dimenticarlo rende vani tutti i pronunciamenti per la parità di genere.