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Don Francesco, la roccia di Passano

Non è facile raccogliere, in poche righe, una vita così lunga come quella di don Francesco, il mio parroco. Già le cifre principali della sua esistenza parlano di qualcosa di straordinario: 93 anni di vita, 70 di sacerdozio, 66 di servizio ininterrotto a Passano. Mi limiterò a qualche cenno biografico, per riassumere poi lo stile e le priorità del suo ministero; ed infine aggiungerò qualche nota personale.

Don Francesco Maria Giuliani è nato il 23 luglio 1920 a Saludecio, primo di sei figli, in una famiglia dalle forti radici cristiane (anche suo fratello Tonino Pio si farà prete). Entra nel Seminario di Rimini, dove frequenta i cinque anni di ginnasio; poi passa al Regionale di Bologna, dove vive l’intensità dello studio e della preghiera, ma anche le turbolenze del fascismo. Il 27 giugno 1943 viene consacrato sacerdote dal Vescovo mons. Vincenzo Scozzoli. Viene subito inviato nella Parrocchia di Santa Maria in Cerreto, dove il parroco è piuttosto malato. Vi rimane per quattro anni.
Finalmente, il 3 agosto 1947, diventa parroco della Parrocchia di Passano, dove rimane, per i successivi 66 anni, fino al termine della sua vita (29 agosto 2013).

Chi ha conosciuto don Francesco ha incontrato un sacerdote tutto dedito al suo ministero, dal carattere un po’ ruvido ed apparentemente burbero, ma di bonaria e semplice umanità. Molto deciso e determinato nelle sue convinzioni religiose e pastorali, ha guidato la parrocchia sia con la parola (voce tonante, dizione chiara, concetti detti e ripetuti), sia con l’azione (feste, processioni, incontri…). Sempre fedele alla Chiesa e al Magistero, ha cercato di dare valore e spazio ai laici, come anche ha creduto nella collaborazione tra i sacerdoti, in particolare del Vicariato.
Ha amato la sua parrocchia e i suoi parrocchiani (di ogni famiglia conosceva, in maniera diretta, i nonni, i figli, i nipoti… e spesso anche i pronipoti); ha dedicato tutto se stesso al ministero. Per questo ha voluto rimanere in parrocchia anche quanto la malattia lo ha reso debole e fragile.
Ed ha voluto essere sepolto nel cimitero di Passano, per rimanere con la sua gente.

Ma cosa ha fatto don Francesco come parroco? Quali sono stati i suoi principali obiettivi pastorali? Nel suo lungo ministero, ha attraversato stagioni ecclesiali molti diverse: dal pontificato di Pio XII, al rinnovamento conciliare, fino alla nuova stagione di Giovanni Paolo II, di papa Francesco e del nuovo millennio. Il nostro parroco, pur cercando di conservare, per quanto ha potuto, forme e tradizioni religiose antiche, ha accettato anche il rinnovamento conciliare e le nuove forme di pastorale. Possiamo distinguere tre momenti, tre diversi periodi nel suo lungo servizio pastorale.
Il primo periodo è quello post-bellico: avendo trovato chiesa, campanile, canonica (e casa colonica, dove io sono nato e cresciuto) crollate o semidistrutte, si è fortemente impegnato per la ricostruzione di ognuna di queste opere, ed è riuscito a coinvolgere tutta la popolazione, che si è unita attorno al suo parroco, in una sforzo corale e comunitario.
C’è stato poi il periodo del Concilio e del post Concilio: don Francesco ha accettato le novità (l’altare verso il popolo, il Consiglio pastorale, i canti “moderni”…), senza però rinunciare a conservare e a proporre le forme antiche, per lui così importanti (soprattutto quelle legate all’Eucarestia).
Infine, e lentamente, è entrato nel periodo della vecchiaia ed anche della progressiva debilitazione fisica; ma il nostro arciprete, con la sua tempra forte, non si è lasciato andare, non si è abbattuto. Ha fatto tutto quello che ha potuto; ha ripetuto, più e più volte, quello che riteneva giusto e importante; ha testimoniato il forte legame spirituale con Gesù crocifisso, e la solida speranza nella vita eterna.

Ora mi permetto qualche ricordo personale; prima due brevi pensieri seri, poi uno più scherzoso.
Dopo aver deciso di farmi prete, mi presentai da lui e gli dissi: “Arciprete, ho deciso: voglio farmi prete”. Ci pensò un attimo; poi disse, un po’ in latino e un po’ in italiano: “Beh, se omnibus perpensis hai valutato bene, è una buona cosa; io pregherò per te”. Posso dire che quell’”omnibus perpensis” ha accompagnato tutta la mia vita di prete.
Andai a far visita al mio parroco poco tempo prima della sua morte. La signora straniera, che si è preso cura di lui per tanti anni, era preoccupata: “Guardi che non è sempre lucido, e riconosce di rado le persone”. Mi avvicinai al suo lettuccio. “Don Francesco, mi riconosce?” E lui: “Chi sei?”. Io, di rimando: “Sono don Pierpaolo”. “Si, si mi ricordo di te”. Abbiamo allora iniziato una piacevole e serena conversazione, dove ha mostrato memoria buona, pensieri limpidi ed una fede serena e tranquilla. Abbiamo terminato pregando, l’uno benedicendo l’altro.
L’ultimo ricordo va introdotto, dato che ora sarebbe proprio incomprensibile. Quando ancora si celebrava la Messa in latino, c’è stato un tempo in cui i parroci, volendo aiutare la gente, iniziavano a leggere il vangelo anche in italiano; ma senza sostituire la proclamazione in latino. Il mio parroco aveva scelto di “leggere in contemporanea”: lui in latino, una persona del popolo in italiano. Quella domenica toccava a me. Iniziammo insieme la lettura e notai che don Francesco era nervoso, e mi dava occhiate severe. Io proseguivo incerto. Lui allora alzò la voce. Io, per farmi sentire dalla gente, la alzai anche di più. Lui si mostrava agitato e guardava più volte inquieto verso di me. Strano. Ho proseguito fino alla fine. Terminammo quasi in contemporanea. Allora lui, prima di iniziare la predica, mi si avvicinò e mi disse: “Hai letto il vangelo di domenica prossima!”. Ahi, che guaio! Non dico con quale patema ho seguito la sua predica, quella domenica; una predica difficile, dato che la gente aveva ascoltato il mio vangelo! Ricordo che alla fine pensai tra me e me: “Però, se l’è cavata!”.

Grazie di tutto don Francesco, il Signore La ricolmi di tutto il bene che ha fatto alla nostra piccola, ma unita parrocchia (unita, per tanti anni, da Lei e attorno a Lei).

Don Pierpaolo Conti