Aziende: 2011, fuga da San Marino

    Per decenni San Marino è stata la terra delle occasioni. Soprattutto per chi voleva mettere in piedi un’impresa o un’azienda. Perché avere in società un cittadino sammarinese dava l’opportunità di aprire una sede proprio sul Titano, usufruendo di un regime fiscale che, per chi viveva oltreconfine, rimaneva un sogno irrealizzabile. Ma appunto, permetteva, perché oggi sta accadendo il contrario. Per citare un famoso film di fantascienza, potremmo titolare questa storia 2011, fuga da San Marino. La tendenza si è infatti invertita. Le ultime restrizioni del ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, l’inserimento di San Marino nella black list e il conseguente decreto incentivi, i problemi con i frontalieri e le notizie che raccontano di una terra, quella della riviera e del Titano, in cui gli affari della mafia proliferano, hanno fatto rivedere a molti industriali le direttive sul futuro. Ora c’è chi fonda una seconda sede in Italia, o, peggio, chiude a San Marino e riapre l’azienda oltreconfine.

    Quell’immagine un po’ così
    Tra i vari problemi che attanagliano chi lavora a San Marino, uno tra i più urgenti è proprio quello legato all’immagine. Chi lascia il piccolo Stato per tornare in Italia lo fa soprattutto per dare alla propria attività una credibilità ormai perduta.
    “Il vero problema – spiega William Vannini dell’Associazione Nazionale dell’Industria Sammarinese – è che San Marino sta vivendo una crisi nella crisi. È come se le due fossero annidate. C’è la crisi globale, quella che ha colpito tutto il mondo e che ha messo in ginocchio il nostro sistema, e all’interno si muove un’altra crisi, quella della black list e del decreto incentivi italiano”.

    Il decreto “incriminato”
    Secondo quanto disposto dal decreto, i soggetti e le attività che effettuano operazioni superiori ai 5mila euro con aziende aventi sede in un paese inserito nella black list – nel caso particolare San Marino – dovranno comunicare tutte le operazioni all’Agenzia delle Entrate. È come dire che l’Agenzia delle Entrate avrà un occhio in più per controllare tutte le aziende che faranno affari con San Marino. Un’operazione finalizzata a disincentivare lo scambio commerciale tra Italia e Titano che sta mettendo fortemente in difficoltà le aziende della Repubblica.
    “Non si può parlare di migrazione di massa, ma è indiscutibile che una crisi c’è. Alcune aziende hanno chiuso oppure hanno deciso di aprire in Italia, molte altre sono in osservazione. Diciamo che stanno sulla porta e rimangono a guardare come si evolve la situazione. Ma se le cose continuano in questo modo, se non ci sarà a breve una soluzione politica che riporti un po’ di ossigeno all’economia sammarinese, la fuga delle aziende potrebbe diventare una vera e propria emorragia”.

    Numeri preoccupanti
    I dati parlano chiaro. Nell’ultimo anno e mezzo più di 400 aziende hanno avviato una riduzione del personale oppure hanno chiuso i battenti. Sono state invece 2.051 le ditte che sono ricorse alla cassa integrazione e più di 7 milioni le ore liquidate. Ma è difficile tracciare la strada percorsa da queste aziende. C’è chi diminuisce il personale perché non ha più lavoro, ma anche chi tenta la carta del trasferimento.
    “Il fenomeno non è nuovo, sono molte le aziende sammarinesi che hanno da anni una sede in Italia per motivi di spazio. La nostra Repubblica è piccola, geograficamente parlando, e per molti uno spazio in più è vitale”.
    I dati sono confermati anche dall’altra parte del confine.
    “Non è possibile tracciare il percorso di queste aziende – afferma Gianfranco Lucignano, Tenente Colonello della Polizia Tributaria di Rimini – perché comunicano l’apertura della nuova sede direttamente all’Agenzia delle Entrate. È indubbio che l’adempimento burocratico che obbliga dal 1° luglio 2009 a comunicare mensilmente l’elenco dei soggetti sammarinesi con cui si hanno rapporti commerciali è un deterrente. E non è solo una questione di paura dei controlli. Queste comunicazioni generano un aggravio fiscale che può far perdere il vantaggio di operare a San Marino”.

    Una lista nera mal digerita
    Ma c’è anche chi decide di aprire una filiale in Italia per evitare il meccanismo della black list. In pratica la nuova sede italiana dell’azienda sammarinese fa da commissionaria, in modo che le altre aziende del Bel Paese, relazionandosi con quest’ultima, evitino di avere a che fare con ditte sammarinesi e non incappino nei controlli. Secondo l’ANIS è una soluzione normale per una situazione di emergenza che rischia altrimenti di mettere in ginocchio tutto il comparto. E la politica sammarinese come si comporta? Ci sono stati dei passi avanti, come l’eliminazione delle società anonime e altri provvedimenti, che però non hanno completamente soddisfatto l’OCSE, e ancora meno il ministro dell’Economia italiana, Giulio Tremonti, secondo cui le azioni compiute finora dal Governo della Repubblica non sono sufficienti a far riprendere i normali rapporti. La conferma è arrivata durante la risposta del Sottosegretario all’Economia, Sonia Viale, a un’interpellanza presentata dall’onorevole riminese, Elisa Marchioni.
    “I progressi registrati non sono tali da assicurare la trasparenza e la cooperazione necessaria a combattere la criminalità. Il Titano è sempre più rifugio per i capitali di origine illecita e da ciò deriva il timore che sia anche meta per la malavita organizzata, sia italiana sia estera”.
    In pratica, per quello che riguarda la politica italiana, San Marino rimane ancora nella black list.
    “San Marino ha appena firmato accordi bilaterali con la Francia e la Germania – conclude Vannini – la nostra posizione internazionale è notevolmente migliorata, avvicinandosi agli standard richiesti. È però importante per noi da un lato ricucire soprattutto con l’Italia, che è il nostro partner principale, dall’altro riuscire a mantenere un regime fiscale più basso per avere delle attrattive per gli investitori esteri”.
    Mentre la politica decide come muoversi, le aziende stanno sulla porta ad osservare l’evolversi degli eventi, ancora indecise se fare quel passo che le porterà, o riporterà, in Italia, dove la fiscalità è sicuramente più alta, ma le prospettive migliori.

    Stefano Rossini