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Monache, anzi guerriere

Ekaterina Gubanova (Mère Marie), Corinne Winters (Blanche) - PH Fabrizio Sansoni

Con Dialoghi delle Carmelitane, capolavoro di Poulenc, si è inaugurata la stagione del Teatro dell’Opera di Roma 

ROMA, 29 novembre 2022 – Quando Francis Poulenc ha messo in musica i Dialogues des Carmélites di Georges Bernanos, trasformandoli nell’omonima opera in tre atti e dodici quadri, è apparsa subito evidente (la prima fu alla Scala nel 1957) la sua consonanza con l’autore del Diario di un parroco di campagna. Nella pièce come nell’opera i personaggi s’interrogano sul senso della vita e della morte, in un’ansia umanissima non contraddetta, ma semmai esaltata, dalla profonda fede religiosa di scrittore e musicista. Una di quelle rare simbiosi tra libretto e partitura che caratterizzano solo i grandi capolavori.

Peccato che di questa intensa spiritualità non ci sia traccia nello spettacolo che ha aperto la stagione dell’Opera di Roma. Almeno a livello visivo. Nel narrare la tragica vicenda cui va incontro un gruppo di suore ghigliottinate durante il periodo del Terrore, la regista Emma Dante le ha trasformate in vittime – più che della Storia – di un mondo maschile. Loro stesse indossano armature ed elmi (sebbene possano rimandare a un’aureola), peraltro non troppo plausibili in donne che hanno scelto il convento per sfuggire al mondo esterno; ma se la ferocia della Rivoluzione sta tutta negli uomini, la Regola della clausura ha tratti non meno crudeli: quando le novizie entrano in convento vengono azzoppate, con una mortificazione della carne che si tradurrà in invalidità permanente.

Al centro Ewa Vesin (Madame Lidoine) – PH Fabrizio Sansoni

L’incognita della morte – e la paura che ne consegue pure in chi ha fede – viene ricondotta a un teatrino della crudeltà riassunto dai gesti meccanici e compulsivi di alcuni mimi, dove il gender trova la sua declinazione cristologica nell’immagine finale della protagonista non decapitata con le altre consorelle, ma crocifissa. La Dante, insomma, continua a ricorrere a un immaginario che quando mette in scena i propri spettacoli ha una sua precisa e potente cifra stilistica, ma che trasferita al teatro musicale spesso si trasforma in manierismo. Nell’impaginazione dello spettacolo si lascia invece apprezzare la soluzione scenografica ideata da Carmine Maringola: un emiciclo, creato da quadri con ritratti femminili di David, che si ricomporrà nell’epilogo, quando al posto dei dipinti saranno le suore a essere incorniciate. Poi su di loro calerà, ad una ad una, la ghigliottina, riassunta da un telo bianco che cade.

È comunque la bravura degli interpreti – davvero un gran bel cast – a rendere percepibili l’intensità psicologica dei personaggi. A cominciare dalla protagonista Corinne Winters, bravissima nel rendere con vocalità omogenea lo spaesamento di Blanche de La Force, giovane rampolla di una nobile famiglia che decide di chiudersi nel Carmelo per trovare tra preghiera e contemplazione quel coraggio che le consenta di affrontare la vita e, in seguito, la morte. Cesellatrice della parola cantata, Anna Caterina Antonacci è stata un’emozionante interprete dell’anziana priora, capace di trasmettere quell’angoscia che l’assale quando – ormai inferma – è sul punto di morire. Mancata superiora, ma personaggio più problematico e ambiguo, è Mère Marie, l’unica suora che scampa (o si sottrae?) al patibolo, interpretata da Ekaterina Gubanova con una compatta timbratura al servizio di un fraseggio sapientemente articolato. Madame Lidoine, la nuova superiora, era Ewa Vesin, in grado di far convivere senza artificiosità la natura rustica del personaggio e una vocalità da soprano drammatico spinto. Emöke Baráth ha impresso giovanile entusiasmo a suor Costance, coetanea della protagonista e, al suo opposto, entusiasta della vita, in un ottimismo – anche al momento del sacrificio finale – fanciullesco e mai puerile.

All’altezza dei desiderata anche il versante maschile. Nei panni del cavaliere de La Force, fratello della protagonista, Bogdan Volkov ha mostrato una vocalità limpida e scorrevole per un personaggio cui, del tenore tradizionale, Poulenc concede ben poco. Jean-François Lapointe è stato il classico baritono “padre nobile”, assai ben cantato, mentre come cappellano del convento Krystian Adam ha assolto con efficacia il suo ruolo, niente affatto residuale, di secondo tenore. Fra i comprimari spiccano il bel colore mezzosopranile di Irene Savignano (Mère Jeanne) e la vis declamatoria di Alessio Verna e Andrii Ganchuk, che si fanno carico di due ruoli a testa.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera in gran forma, Michele Mariotti ha costruito la sua lettura basandola sui contrasti e la continua contrapposizione tra sonorità melodiose, quasi suadenti, e brusche asprezze (magari più appropriate a Stravinskij o Bartók) spesso accompagnate da un repentino innalzamento dei livelli sonori. Poulenc è caratterizzato da minori fratture e la sua visione intimista si traduce meglio in tensioni ininterrotte ma latenti, da restituire forse più sottotraccia.

Giulia Vannoni