Non di leva ma per scelta

    Sono le 10 del mattino, ma in dicembre inoltrato è freddo anche a mattina consumata. È freddo, ma davanti ai cancelli della sede del VII reggimento Aviazione dell’Esercito Vega, ci sono i ragazzi e le ragazze che osservano dalle sbarre che tutto vada bene.
    In formazione completa sono in 600, il 40% (circa) dei quali volontari. A ridosso dell’aereoporto civile Federico Fellini, una città in miniatura perfettamente organizzata che respira e si muove ininterrottamente un giorno dopo l’altro sin dal 1998 (quando arrivarono i primi nuclei) e poi un anno dopo con la costituzione vera e propria della formazione come la si vede oggi.
    I cittadini contribuenti li vedono da oltre le sbarre o in parata nelle feste ufficiali, ignorando completamente come si svolge la giornata di una persona in divisa. Siamo entrati dentro il VII reggimento Vega, visto e ascoltato ciò che c’era da vedere e da ascoltare, lasciando a casa il luogo comune dell’uomo della strada, di chi pensa che l’esercito (come qualsiasi altra forza) sia serbatoio di nulla facenti o parcheggio preferenziale per chi è in cerca di lavoro o non ha trovato di meglio da fare.
    Tra un estremo e l’altro c’è tanto, c’è passione e professionalità ma soprattutto c’è una legge che ha eliminato l’obbligatorietà della leva, mutando il volto delle forze armate del Paese.

    Inizia da qui, il viaggio de “Il Ponte”dentro le nuove forze armate rivoluzionate dalla soppressione della leva obbligatoria.
    “La scelta e la consapevolezza è il fondamentale aspetto da sottolineare – commenta il Tenente Colonnello pilota Giovanni Ramunno, ufficio stampa del VII Vega – anche se in tutti questi anni di lavoro ho visto dei ragazzi di leva molto validi e motivati, 12 mesi non bastano. Una giusta formazione, per lavorare all’interno della base nel modo più consono, necessita di più tempo. Quello scarto temporale che permette ai volontari precari (3 anni) di prepararsi nel migliore dei modi”.
    In cosa consiste il vostro lavoro?
    “Il VII Vega svolge fondamentalmente attività di tipo logistico, per cui la gestione della sicurezza, dei circoli, delle mense, dell’infermeria e del deposito carburanti, svolto prevalentemente dai volontari. Ci sono, poi, gli elicotteri che si alzano per qualsiasi eventuale emergenza. Naturalmente la nostra giornata comincia con l’alza bandiera e finisce con l’ammaino della stessa, ma in mezzo ci sono molte attività, tra le quali il mattutino incontro nel quale si riepilogano le situazioni meteo dello spazio aereo di Rimini e dintorni, le condizioni della radio assistenza, si programmano i voli e si gestiscono gli inconvenienti dell’ultimo minuto”.
    L’opinione pubblica conosce poche cose di voi. Ma è idea comune che accogliate chi non riesce a trovare lavoro, e in particolare la gioventù del meridione. Questa è leggenda o realtà?
    “Più la prima che la seconda. Tanto che abbiamo dei dati che dimostrano l’eterogeneità della provenienza delle persone che lavorano con noi. Ogni anno, infatti, somministriamo ad una popolazione – variamente e proporzionalmente distribuita tra truppa (29%), ufficiali (21%), sottoufficiali (26%) e volontari in servizio permanente (23%) – rappresentativa dell’intero corpo, un questionario che, tra le altre cose, fornisce informazioni sui dati socioanagrafici e relative informazioni personali dei 600 militari”.
    All’ultimo questionario, redatto lo scorso anno, sono state intervistate 200 persone, il 30% dell’intera popolazione; il 93% dei quali (197) maschi e il 7% (14) donne. A confermare che l’età media si è incrementata, i dati mostrano come la fascia più rappresentativa sia quella che va dai 21 ai 29 anni (45%), a seguire quella compresa tra i 30 e i 39 anni (31%) e quella compresa tra i 40 e i 50 anni (18%). Mentre solamente l’1% supera i 50 anni e il 6% ha meno di 20 anni.
    Ma fatti i conti con l’età, cosa dire della provenienza?
    “Sempre dallo stesso questionario, emerge che se è vero che il 23%, il 22% e il 16% arrivano rispettivamente da Campania, Puglia e Lazio è altrettanto vero che solo il 6%, il 3%, il 2% e l’1% arrivano rispettivamente da Sicilia, Calabria, Abruzzo e Basilicata. E dire che le ultime regioni che abbiamo nominato, hanno dei tassi di disoccupazione giovanile più che preoccupanti”.
    Certo è, che questi dati non sono allargabili al fenomeno militare per intero, ma in generale è stato stimato che la presenza di lavoratori provenienti dal sud Italia dentro le realtà militari, è pressochè simile a quella di un qualsiasi altro settore di pubblico impiego.
    È possibile creare un “tipo-sociale” del ragazzo che sceglie di fare questo lavoro?
    “Non si può parlare di tipizzazioni, ma nel nostro caso dei 200 intervistati ben il 72% è in possesso di un diploma di scuola media superiore, mentre il 16% possiede la licenza media e solo il 5% è laureato”.
    Una parte consistente del lavoro dell’esercito italiano consiste nelle missioni di pace all’estero. Attualmente ci sono contingenti del VII Vega in giro per il mondo?
    “Ad oggi del VII Vega ci sono 70 persone in Kosovo, 20 in Libano e 50 (tra piloti e specialisti) in Afganistan, e tra le altre cose, vivono in tenda.”
    Cosa dire della querelle mediatica sulla missione di pace con le pistole cariche nella fondina?
    “È una strumentalizzazzione linguistica. Nessuno dice ad un chirurgo che ha in mano un bisturi che può uccidere e pure può farlo, anche se le sue intenzioni non sono quelle. Orgogliosamente dico che esiste un metodo italiano, che stanno studiando, per una possibile applicazione, anche i corpi militari inglesi. Forti della vocazione e della capacità tutta italiana di entrare in comunicazione e in empatia con la popolazione, si sono fatte cose importantissime e non di dominazione quanto piuttosto di accompagnamento verso una rinascita delle istituzioni e della vita dei paesi martoriati dai conflitti.
    Credo anche, che ci sia un sistema mediatico che lasci poco spazio alle notizie vere, ai giornalisti che vanno sul campo a vedere per raccontare, e non solo quando si sente il botto, ma anche prima quando l’odore del botto è ancora nell’aria. Il vuoto informativo che c’è in mezzo crea un disorientamento proprio in quell’opinione pubblica che dice che nelle missioni all’estero andiamo a sparare o a guadagnare. In mezzo c’è la politica, c’è la diplomazia e ci sono le vite che salviamo e il futuro che contribuiamo a creare”.

    Angela De Rubeis
    Marco Centrella