Home Storia e Storie Mangiare all’antica: a tavola non si invecchia

Mangiare all’antica: a tavola non si invecchia

Carne, pesce, cereali. Il cibo nel corso dei secoli non era tanto diverso da quello di oggi. Diversa era la disponibilità sul mercato e la preparazione. Bastava una carestia per decimare le provviste e lasciare i cittadini alla fame. E, a seconda dei tempi, variavano le modalità di preparazione. Sono alcuni dei temi trattati durante l’incontro “A tavola non si invecchia. L’alimentazione in Romagna nel corso dei secoli”, convegno promosso di recente durante le Giornate Europee del Patrimonio, presso l’archivio di stato di Rimini.

Nell’Alto Medioevo i terreni erano incolti – spiega il professor Oreste Delucca – il cibo principale della popolazione era costituito da carne che ci si procurava con la caccia, che bastava agli abitanti. Nel tardo Medioevo c’è un’evoluzione, con l’aumento della popolazione si deve passare a una dieta cerealicola ed erbivora, i boschi vengono resi agricoli e servono per sfamare le persone”. Ma sono anni in cui basta una malattia come la peste nera a far tracollare nuovamente la popolazione, che poi aumenterà nuovamente variando anche le abitudini culinarie”.

E il pane? In quegli anni era un alimento importante.
Certo, il pane aveva un ruolo centrale, basti pensare che la sua mancanza era simbolo di carestia. A tavola il pane aveva una funzione primaria, il resto era ‘companatico’, cioè contorno: pane e verdura, pane e legumi, pane e formaggio, ecc… Bastava una guerra o una stagione climatica avversa per alzare il costo del grano e ridurre molte persone alla fame”.

Soffermandoci più da vicino sul territorio riminese, qual era la situazione?
“Contrariamente a quanto si pensi – racconta Piero Meldini – l’alimentazione nel Medioevo era più ricca di quanto lo sarà nei secoli successivi, e anche se le classi inferiori si alimentavano soprattutto con cibi a base di frumento e vite (pane e vino), in quegli anni la carne non era solo appannaggio dei ricchi. Nell’entroterra riminese c’erano cinghiali, daini e la costa di Bellaria era piena di volatili”.

Lo ha spiegato bene, Meldini, anche nel suo libro, scritto a quattro mani con Michele Marziani: La cucina riminese tra terra e mare (Panozzo Editore).

Ma come si possono ottenere oggi tante informazioni e curiosità riguardo ai “mangiari” di una volta?
“Molte conoscenze – continua Meldini – si acquisiscono da fonti che intendevano parlare di altro. Ad esempio gli inventari, ve ne sono alcuni del ’400 davvero curiosi: si inventariava quello che si aveva, anche una pentola sfondata o una scarpa vecchia. Poi ci sono i racconti della vita dei Santi e anche da questi si possono trarre molte informazioni sugli usi e costumi del tempo. Inoltre, da diversi documenti si possono trarre indicazioni sul consumo di cibo in Quaresima.

Dipendeva dall’annata: se, ad esempio, si aveva a disposizione poco olio si potevano utilizzare anche i grassi animali senza infrangere il digiuno. Il cibo aveva un forte valore simbolico legato alla vita familiare. Era opportuno consumare un certo tipo di cibo piuttosto che un altro dopo un funerale, dopo un parto e ancor più marcatamente nel periodo di Natale. Alcune tradizioni si sono conservate nel tempo, ma vengono sostituite sempre più dal consumo di massa. Ovviamente, oggi è diverso anche il metodo di cottura e conservazione. Ma restiamo nel passato quando i cibi erano arrostiti sulle braci o su fiamme vive: se siamo attenti, ne percepiamo ancora il delizioso profumo!”.

Mora di gelso: frutto antico (dimenticato) dalle proprietà benefiche. Interviene la professoressa Cristina Ravara Montebelli.
“La mora di gelso è citata già dai tempi dei romani. Plinio chiama il gelso ‘albero sapiente’, perché quando arrivano i giorni freddi, dalle foglie inizia la germogliazione, che avviene nel giro di una notte. Anche ne ‘Le Metamorfosi’ di Ovidio c’è una favola che anticipa la storia di amanti che si incontrano segretamente sotto un albero di gelso, albero dalle more bianche: Piramo e Tisbe. Il finale è tragico, con Piramo che si pugnala a morte e il sangue tinge le more di rosso. Ma, prima di morire, Piramo chiede agli dèi che le more si tingano di nero. Dalla leggenda alla realtà: le more hanno colore bianco, rossastro e nero. Galeno, poi, ne descrive le proprietà terapeutiche: da questo frutto si ricava il diamoron, succo di more di gelso cotto col miele oppure composto con aggiunta di mirra, zafferano e agresto. Una medicina naturale.

Vi sono differenze tra le varie tipologie di gelso: vi è il Morus Alba, cioè l’albero che produce le more bianche con le quali si alimentano i bachi da seta, dalla cui corteccia si ottiene anche il gelsolino, materiale con cui venivano realizzate funi, carta o tessuti. E il Morus Nigra, il moro nero (o gelso nero), che produce la mora nera che è più saporita, dalla quale si ricava uno sciroppo astringente. I frutti sono più grossi, succosi e vanno dal rossastro al nero lucido. Inoltre, già Carlo Magno parla dei Mori, varietà che dovevano essere coltivate nelle sue ville.

Riguardo a Rimini, un documento conferma l’allevamento del baco da seta: la ‘Lode al gelso’. In un consiglio comunale dell’ottobre 1670, si legge che il signor Serafino Fini chiede di poter piantare mori nel ‘residuo sito accanto alle mura attorno e dentro alla città e nel sito di qui e di là dal porto’. Ottiene di farlo dentro e fuori le mura e al porto, ma le piante restavano di proprietà pubblica per 30 anni. In quel periodo le more erano molte, era cibo quotidiano. Addirittura, esisteva la ‘Giornata del gelso’, che si festeggiava fino al 1940: i ragazzi delle scuole piantavano piantine di gelso per promuovere l’allevamento del baco da seta. Dopodiché, negli anni successivi, non si ha più cura di questi alberi meravigliosi, e oggi ne sono rimasti davvero pochissimi”.

Il pesce. L’intervento di Maria Lucia De Nicolò durante le Giornate Europee del Patrimonio.
“Nel quindicesimo secolo il pesce più apprezzato era il pesce di acqua dolce, del quale c’era un importante commercio, mentre il pesce marino era meno considerato. Rimini non aveva ancora un’identità marinara. Fino agli anni centrali del Cinquecento la protagonista della pesca era la tratta che si svolgeva sulla riva e che creava non pochi problemi, tanto che le autorità dovevano regolamentare il tutto, risolvendo eventuali conflittualità tra i pescatori. La pesca in alto mare inizia solo verso i primi del 1600, quando pescatori provenienti dal Veneto arrivano nel nostro territorio ed insegnano alla gente del luogo come procedono per la pesca a strascico. I nostri conterranei provano le barche e cambiano la vela usando quella a trabaccolo. Nascono così le marinerie locali, e Rimini diventa padrona del Mediterraneo. La minutaglia diventa cibo dei poveri che si accontentano di pescato rotto o di misura non commerciabile. Anche le poveracce, sebbene presenti sulle tavole dei ricchi, erano considerate per i poveri, venduto da donne che urlavano nella piazzetta.

Interessanti i termini che emergono dai documenti del tempo, atti di compravendita o inventari. Si formavano compagnie: il sodalizio di più persone che si associavano per ricavare utili dalla pesca, società più o meno ufficiali, a volte le ritroviamo su atti giudiziari del tempo, ma era un tipo di relazione su base prevalentemente consuetudinaria”.

Alcune di queste informazioni sono tratte da Il mediterraneo nel Cinquecento tra antiche e nuove maniere di pescare, sempre di Maria Lucia De Nicolò.

Silvia Ambrosini