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In un mare di guai

“Ci stiamo pensando”, “Stiamo andando verso questa direzione”, “L’intenzione è questa”. È la fiera della “morbidezza” quella che si innesca quando si accenna allo stato di salute del mare. Si parla del nulla, si scivola nell’ovvietà per evitare di prendere il toro per le corna e a dirla tutta si fa fatica pure ad individuarlo, il toro. La stramba idea di cercare di capire che tipo di rapporto esiste tra i pescatori e il loro mare – se la pesca in qualche misura può influire sul suo danneggiamento, se esiste rispetto tra le parti – si è trasformato in un “mare” (ci venga perdonata l’ovvietà anche a noi) di risposte e valutazioni nebulose, con problemi che pur essendo riconosciuti vengono un po’ tenuti sotto il tappeto. E la sensazione che ci arriva è che in tempi di crisi economica, con problemi contingenti e tasse da pagare, la cura dell’ambiente sia un piccolo lusso che non ci possiamo permettere.
Ed arriviamo al domandone: come se la passa il mare? I suoi frequentatori più stretti, i pescatori, come lo trattano?
“Per quel che riguarda l’inquinamento, non c’è molto da evidenziare. – commenta Attilio Rinaldi, presidente del Centro Ricerche Marine – Diciamo che per avere significativi elementi dovrebbe accadere un fatto grave come una perdita di carburante oppure il rilascio di sostanze pericolose. E questo non c’è. Poi ci sono fattori legati all’attività della pesca, in particolare legati all’acquacoltura dei militi”.
Si tratta, in poche parole, degli allevamenti delle cozze che vengono cresciute dentro sacchetti, che in gergo si chiamano calze, in plastica. “Le calze – precisa Rinaldi – si possono staccare, perdere nel mare, creando dei danni”.
Da una parte si possono accumulare sugli arenili, soprattutto nelle spiagge libere dove non ci sono bagnini e personale che pulisce le spiagge; e dall’altra possono essere ingerite dai delfini e dalle tartarughe provocandone il soffocamento: “È capitato che qui da noi (a Cesenatico, ndr) oppure a Riccione venissero portate delle tartarughe che avevano ingerito queste calze”.
La direzione che si sta prendendo (ma con cautela) è quella di sostituire le attuali calze di plastica con calze di materiali biodegradabili “che però abbiano le stesse caratteristiche di resistenza, e soprattutto di costo, dell’altro materiale”.
Poi ci sono altre tipologie di pesca: ci sono le gabbie, per esempio. Grandi strutture (dalla forma che ricorda quella della benna di una gru) con delle lame che si conficcano sul fondale marino. Obiettivo? Tirare su le sogliole che invece se la godono sul fondo. “Sì lo so, sembra orribile. – continua il presidente Rinaldi – anche i pescatori riconoscono che c’è una certa dose di distruzione del fondale in questa tipologia di pesca, che fa vittime innocenti, ma è tutto legale”. Allora che si fa? Si va nella direzione di abbassare in numero delle ore lavorate con questa tipologia di pesca e si cerca di far utilizzare un minor numero di gabbie per imbarcazione. Ma per ora è tutto in divenire. “Purtroppo si tratta di un’economia. Se dall’estero arrivano le sogliole a basso costo non si può pensare che i nostri marinai escano con le reti di posta, portando a casa poco pesce e di conseguenza, rimanendo fuori dal mercato”.
Riconosciuto il danno, individuata la direzione.
Anche i pescatori se ne sono accorti che se si continua in questo modo le cose non andranno bene. Ma cosa fare? In porto le voci si sollevano tutte verso la stessa direzione. “Cosa possiamo fare? Se vogliamo sopravvivere…”. Caro gasolio, concorrenza con l’estero, crisi economica. Tutto fa pensare alla contingenza e poco alla lungimiranza. L’approccio è quello della storia classica: non si parla di ideali a delle pance vuote.
Non si può. Ecco che anche Giancarlo Cevoli, presidente della Cooperativa Lavoratori del mare, un po’ piccato si “ribella” ad una dichiarazione di Barbara Semprini Cesari, presidente di Legambiente di Rimini, che afferma: “Voci di corridoio, qualche segnalazione di gente che vive il mare ci è arrivata. Pare che ci siano alcuni pescherecci che utilizzano il mare come se fosse una pattumiera. Problema che interessa anche i diportisti, a dire il vero”.
“Ma quale pattumiera – attacca Cevoli – cosa hanno segnalato? Cosa hanno visto? In mare noi prendiamo di tutto. Tronchi, bidoni, taniche e riportiamo tutto in terra. E sa perché? Perché rischiamo le reti. Rischiamo di perdere la giornata se ci si rompe una rete a causa di un rifiuto che ributtiamo a mare”.
Dal canto suo la Semprini Cesari non ne fa una colpa ai pescatori. Anzi è molto chiara nel dire che dal punto di vista dei rifiuti tra mare e terra “anche le amministrazioni dovrebbero interrogarsi. Dare delle strutture, delle isole ecologiche attrezzate, per esempio, che incentivino, i pescatori al momento del rientro in porto, alle buone pratiche. È mai andata in porto? Non si vedono queste cose”.
Anche dal punto di vista dello sfruttamento del mare per mano della pesca la Semprini Cesari è abbastanza clemente: “Il problema non è la pesca. Il problema è la pratica illegale della pesca. Ci risulta che ci siano delle imbarcazioni che pescano sotto costa non rispettando il limite delle tre miglia entro il quale non è possibile fare la pesca a strascico. Ma chi deve controllare cosa fa?”.
Il controllo spetta alla Capitaneria di porto che di fatto lavora su questo fronte anche se secondo la presidente di Legambiente non si fa abbastanza. Ad onor del vero l’attività della Capitaneria di porto è ampia e variegata. Proprio a fine anno è scattata l’operazione Octopus, che si è occupata dell’intera filiera del pesce: dal mare alla vendita sui banchi. Un bel dispiegamento di forze con 653 controlli effettuati, 33 militari a lavoro, 3 mezzo navali e 8 terrestri, impiegati. Risultato: 43 sanzioni (52.800 euro), 13 sequestri per un totale di 132 chili di pescato. Ai quali aggiungere 5 sequestri penali per 47 chili.
Anche a guardare i numeri delle attività del Corpo di mare si presume un’intensa attività: 3.100 controlli sulla filiera della pesca, 463 illeciti amministrativi e 28 penali riscontrati, sanzioni per 340mila euro, 79 sequestri amministrativi e 13 penali.
Lavoro se ne fa, in poche parole. Anche se rispetto alla situazione dei rifiuti in mare e della pratica di gettarne da parte di pescatori e diportisti dalla Capitaneria di porto ci fanno sapere che non sono state sollevate delle sanzioni. In poche parole: non risulta.
Così come non risulta che ci siano dei pescherecci che lavano i loro motori in porto come invece, sempre le stesse voci di corridoio, fanno sapere per vie traverse.
Sarà. Certo è che di problemi sia il mare sia i pescatori ne hanno un bel po’. L’ultimo ce lo segnala proprio il presidente Giancarlo Cevoli: “Siamo in una situazione molto delicata a causa della diffusione di un’alga che ci impedisce di pescare in una grossa fetta dell’alto Adriatico. Ecco perché mi arrabbio davanti ai facili allarmismi di Legambiente. Diciamo che noi dobbiamo fare i conti con i problemi veri. E poi diciamola una volta per tutte: noi pescatori l’inquinamento del mare lo subiamo, non lo provochiamo”.
Difficile individuare il toro in quest’arena.

Angela De Rubeis