Alla guida dell’Orchestra del Maggio Fiorentino, Zubin Mehta ha aperto la 73ª Sagra Malatestiana insieme al violoncellista Meneses
RIMINI, 18 luglio 2022 – Entra lentamente, appoggiandosi al bastone, ma una volta salito sul podio le attenzioni sono tutte rivolte alla musica. Nonostante abbia diretto più volte a Rimini, per Zubin Mehta quella del Teatro Galli rappresenta una première: nelle occasioni precedenti si era esibito all’Auditorium della Fiera, sempre auspicando per la città – e lo aveva ribadito anche l’ultima volta, nel 2015 – un teatro degno di questo nome.
Nella serata inaugurale della settantatreesima Sagra Malatestiana, quando dà l’attacco alla “sua” Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, di cui oggi – dopo esserne stato per trentadue anni direttore principale – ricopre l’incarico di direttore onorario a vita, ci si dimentica degli ottantasei anni di Mehta e di una malattia importante superata poco tempo fa. Sembra invece di trovarsi di fronte ancora una volta al grande demiurgo, capace d’imprimere un passo spedito alle partiture più impegnative e adottare tempi velocissimi senza mai un cedimento, mantenendo nitida l’architettura musicale e curandone ogni minima sfumatura. Adesso, più che l’acceleratore, a prevalere sono gli affondi introspettivi, una raffinata articolazione dei piani sonori e un’attenta cura delle dinamiche: siamo di fronte, insomma, a un Mehta più meditativo e rarefatto, che un’orchestra in gran forma (giovani e brave le prime parti, a cominciare da flauto e violoncello) ha corrisposto al meglio.
Il programma incastonava un Cajkovskij fra due Beethoven, con lo splendido Antonio Meneses solista al violoncello per le Variazioni su un tema rococò: pagina del 1876, tanto celeberrima quanto irta d’insidie. Nato in Brasile, ma di formazione tedesca (è stato allievo del grande Antonio Janigro), Meneses ha affrontato con la più assoluta spontaneità l’elegante virtuosismo di questo brano. Ma non è solo la totale padronanza dello strumento a catturare l’ascoltatore: semmai la capacità di trasmettere un suono caldo e suadente, come avrà modo di dimostrare pure nel bis con Villa-Lobos (troppo spesso, invece, le nuove generazioni sembrano appagate dal mero superamento delle difficoltà tecniche). Grazie anche alla complicità di Mehta, il dialogo fra solista e orchestra procede con estrema naturalezza, restituendo il fascino di una partitura, come quella di Cajkovskij, che continua ad avere per stella polare un olimpico e idealizzato modello mozartiano.
La serata si era aperta con Le creature di Prometeo, composta da Beethoven per il balletto che Salvatore Viganò aveva incentrato sulla celebre figura mitologica, ma – nel 1801 – parve adombrare Napoleone. È proseguita ancora nel solco coreutico con l’ultimo brano in programma: quella Settima sinfonia scritta undici anni dopo e che, stando alla celebre definizione di Wagner, rappresentava «l’apoteosi della danza». Dopo due secoli, metabolizzata ormai la sua rivoluzionaria importanza sul piano formale, l’esecuzione puntava a valorizzarne gli aspetti intimi ancor più di quelli ritmici.
La sorpresa maggiore, comunque, è arrivata dal bis, quando Mehta ha annunciato che sarebbe stata eseguita la musica di un compositore italiano. Ha proposto così l’Intermezzo dalla Cavalleria rusticana: un’interpretazione stupefacente per il minuzioso e raffinatissimo cesello delle sonorità, tale da non far sfigurare anche l’opera più nota di Mascagni a fianco di Cajkovskij e Beethoven.
Giulia Vannoni