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Verità è giustizia

C’è una storia che viene da lontano e che non può essere dimenticata. Un patrimonio fatto di persone, di vicende, di meccanismi svelati. Portiamo sulle spalle 4 secoli di Camorra, 850 anni di Cosa Nostra, 120 anni di ‘Ndrangheta e poi le più nuove: la Sacra Corona Unita e la mafia nel Gargano che sta avvelenando l’intera provincia di Foggia. Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, a Cattolica (il 9 marzo) per parlare del Coraggio delle donne. Mafia, antimafia e impegno politico non trascura il passato, anzi ne parla come di un piccolo grande patrimonio da non disperdere. In un Teatro della Regina gremito di persone mute e attente, ogni parola ha colpito al cuore, alla testa e al senso civico di ognuno, toccando corde di umanità e sensibilità che in pochi riescono a far risuonare.

Don Luigi, lei questa sera ha parlato molto di passato, di figure che hanno anticipato i tempi e che potremmo definire “tristemente profetiche”.
“Come non parlare di don Luigi Sturzo che nel 1900 disse: «La mafia è qui in Sicilia, ma forse la testa è a Roma». Sempre don Sturzo fu molto più puntuale e profetico nel dire: «Salirà sempre più forte, sempre più crudele verso il nord e andrà anche oltre le Alpi». E un pezzo di storia che non può essere dimenticata, come quando nel 1877 la Diocesi di Palermo – in un bollettino diocesano – parlò con chiarezza e determinazione, chiamando in causa i notabili del posto che si nascondevano dietro ai giochi mafiosi”.

E arriviamo, quindi, alla presenza delle mafie al nord…
“La mafia è intorno a noi, fa parte del nostro mondo. È quindi una riflessione ardua che riguarda tutto il nostro Paese. Forse le mafie nostre hanno avuto le radici al sud ma – voi mi insegnate – che gli affari li hanno fatti al nord e ne hanno fatti anche tanti. Quindi non c’è da stupirsi di certe notizie”.

Cosa non ha funzionato nel nostro Paese?
“Io credo che nella nostra Costituzione manchi una parola che è stata data per implicito. La parola è verità. Non c’è una strage in Italia della quale si conosca sino in fondo la verità. E vi prego di credere che il 75% di familiari delle vittime innocenti di mafia, centinaia, in rappresentanza di migliaia che cammineranno con noi, per le vie di Bologna il 21 marzo, chiederanno la verità”.

Chiedono solo la verità?
“Chiedono verità è giustizia. Ma non può esserci giustizia se non c’è verità. È questo il grande grido, il grande grido di un Paese nel quale mastichiamo parole di civiltà, ma abbiamo molte zone d’ombra. Noi non siamo qui per giudicare nessuno ma certamente per porci degli interrogativi. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione e la corruzione è l’incubatrice del potere mafioso, il suo avamposto e la causa prima della mafiosità”.

Può spiegarsi meglio?
“C’è una mafiosità diffusa che è il vero patrimonio delle mafie, prima ancora di quello economico. È la mafiosità che permette di fare tutto questo, perché la forza della mafia non è dentro la mafia. La forza della mafia è fuori dalla mafia. I mafiosi non sarebbero nessuno da soli. Il problema è che trovano alleanze, trovano professionisti, grandi contratti, grandi investimenti, atti notarili. Ripeto: la forza della mafia sta fuori dalla mafia. E l’Italia l’ha capito che mafia e corruzione sono due facce della stessa medaglia”.

Ma lei è qui, stasera, per parlare di donne…
“Si, in particolare di alcune donne che hanno segnato la nostra vita e che portiamo dentro il cuore. Vorrei parlarvi, in primis, di Saveria Antiochia. E grazie all’incontro con lei che è nata l’esperienza di Libera. Vidi per la prima volta questa donna in un contesto che nulla aveva a che fare con le mafie. Io ero in un ospedale di Torino, tenevo le mani ad un ragazzo che ci stava lasciando e lei era una parente che entrò nella sala rimanendo nel buio. Ma lei mi osservò bene. La rividi tempo dopo quando mi parlò di Roberto, suo figlio. Un giovane ragazzo di 23 anni che lavorava alla squadra mobile di Palermo, alla sezione Catturandi con Giuseppe Montana e Ninnì Cassarà. Roberto conosce una ragazza, si innamora e chiede un trasferimento a Roma e lo ottiene. Era il 1985”.

Purtroppo quelli sono anni difficili per Palermo.
“Molto difficili. Nei giorni seguenti viene ucciso Montana. Al funerale Roberto vede Cassarà in difficoltà, non tutelato. Ed è qui che nasce un grande gesto d’amore che ci deve graffiare dentro. Roberto prende la sua ragazza e le dice: «noi avremo tempo. Adesso, non voglio lasciare solo il mio commissario, anche se non sono più in servizio». Lo scorta volontariamente. Sei giorni dopo vengono uccisi tutti e due con 71 colpi di mitraglietta. Era il 6 agosto 1985”.

Conosceva già la storia di Roberto?
“No, fu Saveria a raccontarmela. Mi disse: <+cors>«quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te»<+testo_band>. Oggi io dico che se quei proiettili non colpiscono anche noi, la memoria è solo una celebrazione. Questa mamma coraggiosa che scrisse al capo dello Stato, al apo della Polizia, non perse un giorno di processo per chiedere attenzione per il servizio e impegno di tutti i giovani come Roberto. Sul letto di morte Saveria Antiochia mi disse: «io non potrò più andare a Palermo, continua ad andarci tu anche per me». Una grande donna”.

E poi ci sono Felicia Impastato, mamma di Peppino e Rita Atria, la giovane “siciliana ribelle” collaboratrice di giustizia che si suicidò pochi giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, con il quale aveva un rapporto molto stretto…
“Felicita ha dovuto aspettare 23 anni prima che arrivasse una verità sull’omicidio del figlio. E dopo averla saputa quando gli è stato proposto – a lei che era cresciuta in una famiglia mafiosa e che aveva sposato un mafioso – di cercare vendetta lei ha risposto: «Io non voglio vendetta. Voglio giustizia». Sono parole importanti che segnano un cambio di rotta. Rita, invece, è stata una giovane molto coraggiosa. Ha rinnegato tutto, è andata contro la famiglia, ha sofferto per l’allontanamento della madre ma ha scritto una pagina bellissima della storia di questo Paese. Si è dovuta nascondere anche da morta, una tomba senza un nome e con una foto di lei invecchiata. E poi ha subìto anche l’ingiuria della tomba profanata. Solo dopo tanto tempo, ho potuto celebrare il suo funerale. Adesso Rita è nei cuori di tutti”.

Ci sono storie che non sono mai venute alla luce?
“Tante. Qualche tempo fa ricevetti una lettera di una donna, mamma di tre bambine, che mi ha raccontato la sua vicenda. Mi disse: «io mio marito non l’ho più visto, probabilmente è uno di quei pilastri di cemento. La mia famiglia è un importante famiglia mafiosa. Mi hanno costretta, andavo a scuola e poi mi sono trovata giovanissima a sposare quest’uomo. Ho provato a mettercela tutta, a resistere e poi ho avuto queste tre bambine».

Cosa le chiedeva?
“Mi chiedeva di portare via le sue bambine da quel posto. Il marito non era più tornato e lei voleva evitare che le figlie crescessero nella cultura mafiosa della famiglia di origine e che un giorno fossero chiamate a fare vendetta. E le abbiamo portate via. Poi un giorno il buon Dio ci ha messo lo zampino. Una sveglia non ha suonato e le piccole non sono andate a scuola; lo stesso giorno ha suonato il telefono della residenza nascosta dove le 4 donne erano state portate. Era la preside della scuola che segnalava che dal cortile erano entrate delle persone che giravano per le classi a cercavano le bambine. Sono scappate ancora. Ecco cosa è riuscita a fare la forza di una madre”.

Terminiamo ricordando la giornata del 21 marzo?
“Il 21 marzo, il primo giorno di primavera è la giornata in ricordo delle vittime delle mafie. A partire dalle 17.30 in cattedrale, a Bologna, si faranno i nomi di tutte le vittime: uno per uno. Lo scorso anno c’era anche papa Francesco con noi. Io l’ho chiamato e lui è venuto. È importante essere tanti per dire a tutti che tanta gente sta da questa parte”.

Angela De Rubeis

Foto di Ettore Vichi