Il Conservatorio di Como ha messo in scena la sconosciuta Turanda di Antonio Bazzini
MILANO, 8 dicembre 2025 – Turandot, la commedia di Carlo Gozzi che fonde le suggestioni della fiaba orientale con la commedia dell’arte, ha affascinato musicisti italiani e stranieri, sebbene la fama dell’opera lasciata incompiuta da Puccini abbia poi eclissato le tante altre realizzate sul medesimo soggetto. Poco più di un secolo dopo il testo di Gozzi, il violinista bresciano Antonio Bazzini, noto soltanto per la sua produzione strumentale, scrisse Turanda che debuttò alla Scala nel 1867: in verità, senza troppo successo. Partitura rimasta a lungo semiconosciuta – sembravano sopravvissuti solo alcuni frammenti – è stata rinvenuta di recente a Milano e Casa Ricordi ne ha pubblicato l’edizione critica. Nel frattempo, alcuni compositori avevano però utilizzato l’opera come serbatoio di idee per le proprie creazioni: il soggetto fu riciclato appunto da Puccini (peraltro l’allievo più celebre di Bazzini), mentre l’inno al sole nascente che apre l’opera riecheggerà nell’Iris di Mascagni.

Ascoltando questa ‘azione fantastica’ – così fu definita Turanda, dopo aver eliminato la componente legata alle maschere italiane – si scorgono le numerose suggestioni orientali che l’alimentano sul versante drammaturgico. Appare invece più tenue nella scrittura orchestrale l’eco esotica, circoscritta quasi soltanto a livello timbrico; nell’insieme Bazzini sembra guardare al presente: alle novità musicali che si stavano diffondendo in Europa e contavano numerosi seguaci in Italia. Non avendo, invece, troppa confidenza con la vocalità (Turanda resta il suo unico titolo operistico), il compositore preferisce affidarsi a formule collaudate del passato, neppure troppo recente, con l’articolazione di alcune arie che sembrano evocare Donizetti: non a caso il momento forse più riuscito, e in grado di strappare l’applauso, è il concertato del ‘finale secondo’, dal carattere quasi preverdiano.
Lo spettacolo visto al Teatro Lirico di Milano (oggi intitolato a Giorgio Gaber) è una produzione del Conservatorio di Como, con interpreti quasi tutti orientali: studenti provenienti dai più lontani paesi extraeuropei. Del resto, oggi le classi di canto sono affollate soprattutto da stranieri, che arrivano in Italia per impadronirsi dei segreti di un mestiere di cui vengono ritenute depositarie le nostre istituzioni scolastiche. A realizzare la componente visiva sono stati invece gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Brera, con un risultato assai apprezzabile e che non ha niente da invidiare alle messinscena dei più blasonati enti lirici.
Nella variante della commedia di Gozzi intonata da Bazzini, in realtà, la principessa Turanda sarebbe persiana e non cinese: per questa produzione è comunque stata scelta una protagonista italiana, il soprano Anna Cimmarrusti – peraltro già in carriera – che, in virtù di apprezzabili mezzi vocali, ha saputo imprimere al personaggio tratti ora algidi, quando impone ai suoi pretendenti la risoluzione dei tre enigmi, ora appassionati, quando cade innamorata di Nadir. Interpretava il principe indiano – un nome che evoca quello del tenore protagonista ne Les pêcheurs de perles di Bizet – Weihao Du, di voce più gradevole che robusta e comunque in grado di sostenere un ruolo molto impegnativo. Dotato di voce risonante anche nel registro più grave, il basso Yonghyun Kim ha disegnato un autorevole Ormut, sorta di mago maestro e amico di Nadir. Per il re di Persia e padre della principessa, ancora un basso: Minsu Kim, dai mezzi meno sostanziosi, e forse più preciso musicalmente. Completava il cast l’aggraziato soprano Lee Juhyeon: la giovane Adelma, schiava di Turanda e anche lei innamorata di Nadir (tuttavia non farà la stessa fine della Liù pucciniana, limitandosi a versare qualche lacrima di delusione).
Stefania Panighini firma uno spettacolo bello a vedersi grazie alle scene e, soprattutto, ai magnifici costumi. La sua lettura registica mette al centro la volontà di Turanda a non sottostare alle regole di una società patriarcale: ossia sposarsi e, soprattutto, diventare madre (lo sottolinea una sagoma di apparato genitale femminile, rielaborato in chiave psicanalitica, che campeggia sulla parete di fondo). La protagonista non appare così crudele come in Puccini, anche se si mantiene ferma nel suo rifiuto, ma nel finale cederà comunque alle pulsioni romantiche dell’amore. Realizzata con efficacia l’evocazione degli spiriti nel terzo atto, quando Turanda vuole scoprire il nome del misterioso principe: una sorta di allusione agli spettri del Macbeth verdiano, che certamente Bazzini conosceva, tenuto conto che la seconda versione risaliva ad appena due anni prima. Movimentato con apprezzabile consapevolezza anche il Coro del Conservatorio “Verdi” di Como (preparato da Matteo Castelli e Domenico Innominato), coinvolto in numerosi interventi.
Il direttore Bruno Dal Bon ha tratto dalla Filarmonica del Conservatorio sonorità corrette, imprimendo un andamento scorrevole alla sua lettura. Sempre ben corrisposto anche dalla banda sul palco sia per merito della bravura dei componenti – una quindicina – sia per un’efficace intuizione a livello visivo, che la assimilava a un vero e proprio personaggio. Del resto in Bazzini ciò che più conta è la musica.
Giulia Vannoni





